saggezza da marciapiede

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 Una riflessione di Vincenzo Consolo sugli ultimi, i senza fissa dimora …

 (dall’Unità 20 ottobre 2003 )

 Saggezza da Marciapiede

Stanno nel tempo loro, nell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, negli antri delle sibille, nelle celle dei vati, stanno come vessilli gravi sui confini, nel varco breve tra il conato e la stasi, la somma e infinita quiete metafisica.

Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, scale, piedistalli, sago­me che in volute di drappi, spiegamento d’ali, torsioni, slanci, gonfiori e incavi, fantasie barocche, fingono o figurano il moto, l’estro della vita, sono masse ironiche contro le nostre illusioni, i nostri inganni, cumuli beffardi, monito fermo del destino umano, dell’esito fatale in fissità pietrosa, lento sfaldamento, dispersione in granuli, pulviscolo. E la luna, la tenera sorella delle statue, degli angeli, imbianca groppe, balze, intenebra pieghe, anfratti, scanalature, vortici, il tellurico gioco di vesti, manti. Da dove giungono questi pellegrini affranti, quale gior­no li vide camminare, quale luce scoprì le crepe, le frane, il velo sopra l’occhio, la patina sui volto, i segni bassi, sgradevoli del sembiante? Sono proiezioni, ombre, creature delle nostre pau­re, delle nostre angosce?

 

Sono gli abitatori dei margini, le sentinelle dell’abisso, i testi­moni del cedimento, gli assertori del rifiuto, del distacco. So­no, lontani muti assoluti, il richiamo costante della precarietà, dell’equilibrio instabile, dell’assurdo spasmo dell’esistere, del vivere cieco e affannoso, formicoloso moto, ottuso vagolare per cunicoli e tane, dimore grasse, labirinti d’isteria, d’oltraggio, nostro d’illusi dominanti su questa crosta procellosa, su questa landa del mondo, «su l’arida schiena / del formidabili monte, su questo Vesuvio o Etna che in ogni istante, all’istante, per vo­lere del Caso, stermina e pietrifica, vanifica ogni vita, cancella ogni memoria.

 

Sono, questi profeti mesti, queste argillose statue, questa teoria antropomorfa di sarcofagi sepolti nella notte, il canto malioso o, ancor più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo.

 

Ora affiora dal groviglio delle pieghe, dalla piramide brumosa dell’orbace il lampo chiaro d’una mano, l’accenno d’una fron­te, sboccia il gesto di rifiuto o di difesa. Il mucchio penoso del distacco e dell’oblio ha ora bave di colore, vermiglie striature, violacee, è bagnato dalla luce mercuriale, dalla livida lampa nel­l’immenso vano dell’assenza e del silenzio. Si disegna d’intorno la fredda geografia della storia, la quinta, il fondale inesorabile del teatro sociale, cantone di palazzo, incrocio di vie senza no­me, griglia di vetrata, rampa di scala mobile, acciaio, plastica di deserte stazioni, anditi dei transiti sospesi.

 

Vengono questi ribelli, questi dimissionari della convivenza, questi emarginati dalla ipocrita decenza, questi esiliati dal pote­re mercantile — la banale civiltà, l’angustia sociale che nomina barboni o in altri modi uguali questi che hanno abbandonato il campo, violato la dura legge dell’avere — vengono da lontano nella storia, da oscuri medioevi di carestie e pesti, d’empietà e di violenza, vengono dalle piazze di Londra o di Parigi, da sotto arcate di ponti, da corti dei miracoli, bruegheliane quaresime, cortei di cenci, di cecità e di piaghe, da alberghi di carità, ghetti di decenza.

 

Sono i barboni, nella trionfante storia nostra d’oggi, incongrue presenze, segno dei nostri ritardi, dei nostri fallimenti. Sono simbolo, nelle interne fratture, della più vasta, crudele frattura nel mondo, profezia inquietante d’un medioevo incombente.

 

Vincenzo Consolo