“Non sono solo, perché sono un internazionale”

 

Come uscire dalla cronicità. Il processo di restauro del delirio

Elisabetta Rossi Gallani

 Infermiera - SSM AUSL Reggio-Emilia

Servizio di Salute Mentale - Castelnovo nè Monti

Animazione sociale Gruppo Abele n°1 anno 2009

 

Una storia come tante altre

Novembre di cinque anni fa: Riccardo fu ricoverato in struttura residenziale. Fu la prima personache, in via sperimentale, scelsi di seguire, al termine di una formazione in case management, al fine di programmare, attuare e coordinare un programma di cura personalizzato.

L’operatore, in primo luogo, elabora il programma di cura, lo discute, lo condivide con l’equipe, con il paziente, se possibile (in questo caso, data la gravità psicopatologica di Riccardo, non mi fu possibile una condivisione con lui), con i familiari; in secondo luogo, come un regista, mette in campo e coordina tutti gli attori della rete, coinvolti nella cura della persona..

In breve: Riccardo è divorziato; prima del divorzio lavorava in una grande città come responsabile di un’importante boutique; era anche paracadutista. Dopo il divorzio egli tornò al paese natale e la moglie rimase a vivere in città, con la loro figlia. Riccardo andò a vivere insieme alla madre.

Dopo alcuni anni iniziò ad accusare disturbi psichici e ad avere bisogno, sia di cure a domicilio, che di ricoveri. Cinque anni fa, la madre, anziana, fu ricoverata presso una casa di riposo e la tutela di Riccardo fu affidata ad un cugino; la situazione psicologica peggiorò,  per cui Riccardo fu ricoverato di nuovo, ma questa volta non parevano esserci alternative all’accoglienza in struttura, che, di fatto, divenne  il suo nuovo luogo di vita.

 

Da qui, la prima cosa che mi venne in mente per aiutarlo, fu pensare alla dimissione dalla residenza. Ma come? Prima di tutto, Riccardo doveva arrivare a stare meglio: delirava solamente. Non accettai, così come non accetto tuttora,  sentir dire: “Non c’è più nulla da fare… Più di così non si può fare, perché è troppo grave”. Questa frase segna la morte civile di una persona: non è più un essere umano, ma solo uno schizofrenico delirante, cronico, e chi più ne ha, più ne metta.  L’identità sua:  persa di vista!

Progettare una dimissione di una persona ricoverata da anni, è un atto di cura, teso a liberare la persona dall’istituzione e dalla cronicità. Lavorare a che non si protraggano i ricoveri, elaborare e condividere progetti di dimissione, significa pensare, per prima cosa, alla soggettività della persona. Nei servizi di salute mentale esiste il rischio di considerare un disturbo mentale come qualcosa che sfugge ad ogni possibilità di cambiamento: Il destino appare l’unico protagonista. Se lasciamo scivolare un’esperienza psicotica nell’autismo, allora la fatica di vivere quell’esperienza diventa estrema, muore il desiderio e la vita perde il suo senso. Ciò successe a  Riccardo, come succede a molti altri pazienti. Dobbiamo soffermarci a riflettere su questo processo.

Dare alla persona sofferente qualche scintilla di speranza, significa curarla; risolvere la situazione con la somministrazione di farmaci è una scelta sicuramente rassicurante, ma se la malattia è nutrita da sofferenza e solitudine, i farmaci non bastano.

I fenomeni psichici, hanno in sé la trascendenza, l’intenzionalità e gli sguardi, che, come dice Proust, sono le voci degli occhi e non possono essere ricondotti a manifestazioni unicamente biologiche, togliendo tutta la ricchezza e la vitalità dell’esistenza umana.

 

Un progetto “diverso”

Queste riflessioni guidarono l’elaborazione del progetto. E’ proprio il delirio di Riccardo che indicò il percorso di cura da seguire; come? Ricercandone il senso, il significato, anche se appariva sfuggente. E’ fondamentale, nella relazione con la persona delirante, dare peso a ciò che ella dice, pur se le sue parole suonano assurde, senza senso. Il delirio condiviso, si trasforma in messaggio e, al delirio, va riconosciuta la sua verità, senso, che si fa strada uscendo dal seminato. (de – lirare: uscire fuori dalla lira, dal seminato). 

Insieme al delirio, è fondamentale la raccolta della biografia: solo così riusciamo ad afferrare perché la persona delira. Delirare è difendersi da un’angoscia insopportabile ed è proprio nel percorso di vita, che si annidano le cause di tale angoscia.

 

Come prima cosa, quindi, raccolsi la biografia di Riccardo e trascrissi il suo delirio, ed in tal modo, gradualmente, le connessioni si fecero più chiare, fino a formare un puzzle; l’incastro tra linguaggio delirante e biografia, formò un “disegno”, chiaro, nitido.

Si trattava, ovviamente, di una mia costruzione interpretativa, di una mia intuizione, ma questo mi permise di entrare in relazione con lui, su una lunghezza d’onda differente da come era avvenuto fino ad ora. Convocai, poi, la figlia e le espressi il mio desiderio di aiutare suo padre e le dissi che, per fare questo, avrei avuto bisogno soprattutto di lei; con grande piacere accettò, pur non sapendo come fare, perché, disse, “mio papà non mi vuole vedere e quando vengo a trovarlo mi manda via”. Le spiegai che il papà faceva così, non perché non le volesse bene, ma perché gliene voleva troppo e troppa era l’angoscia di saperla lontana e di vederla andare via, o, addirittura, di vedersi rifiutato da lei.  Alessandra (la figlia) si mise a piangere e mi disse che queste parole la rendevano felice e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare suo papà a tornare a casa.

Elaborai il progetto a novembre dell’anno successivo e da lì a sette mesi, Riccardo fu dimesso.

 

Il restauro del delirio

Il lavoro predominante, a mio avviso, senza il quale nessuna altro lavoro avrebbe trovato fondamento, fu il “restauro del delirio”: presi i temi principali del delirio di Riccardo e, alla luce della sua biografia, cercai di dare un senso; di conseguenza, programmai un lavoro tutto incentrato sul suo delirio. Le principali tematiche deliranti erano essenzialmente incentrate su vissuti di rovina:

 

“L’umanità è tutta in rovina, causa il fallimento della banca di Roma e le dimissioni di Fazio, quindi, non resta che morire”.

Dalla ricostruzione della biografia risulta cheRiccardogiocava in borsa e perdeva; ciò causò la fine del suo matrimonio, per cui la moglie lo lasciò, tenendo con sé la figlia di otto anni.

Riccardo peggiorò molto con il passare degli anni e, la madre, anziana, fu ricoverata in casa di riposo;  la famiglia nominò un tutore (il cugino), il quale gli incuteva timore e soggezione; lo picchiava quando non otteneva ciò che voleva.

Riccardo, dunque, perse denaro, moglie e figlia, poi  la mamma ed, infine, la libertà. 

Si ritrovò, quindi,  deprivato di ogni bene.

Il delirio di rovina assorbe l’umanità, tale è smisurata l’angoscia: insopportabile per un solo essere umano. Aspettare la morte è l’unica cosa che rimane da fare.

Alla luce di questa “lettura”, di questa interpretazione, insieme alla figlia e all’educatore professionale (coinvolto nel progetto, come parte attiva di tutta la fase riabilitativa e dell’inserimento a domicilio), feci un lavoro di ripresa di contatto con tutto ciò che era ancora suo e che, mai, gli era stato tolto: Riccardo fu accompagnato in banca, poi all’anagrafe e al catasto, dove egli ebbe la possibilità di verificare quali proprietà erano intestate a suo nome.; non bastò andare una volta sola, ma, grazie alla disponibilità del direttore della banca, dell’assistente sociale e di un funzionario comunale, si andò più volte, fino a che, Riccardo, senza che nessuno gli chiedesse nulla, condusse l’educatore a vedere i suoi possedimenti, uno ad uno e, durante questo giro, gli chiese di accompagnarlo a salutare vecchi amici; chiese, inoltre, notizie della sua automobile: “Non sono ancora maturo per guidare, ma forse riprenderò”.

 

“Tutti gli uomini sono destinati a diventare di ferro”:

Da quando la mamma fu ricoverata in casa di riposo, Riccardo fu “sballottato” fra la struttura residenziale e casa sua. In questo periodo, l’unica persona che andava a trovarlo era il suo cugino che non sembrava avere un gran feeling verso di lui. Riccardo si sentiva come un burattino, una cosa senza anima. Anche in questo caso, l’idea delirante fu generalizzata, racchiudeva tutti gli uomini, riguardava tutte le persone ricoverate: oggetti in balia delle istituzioni.

Si trattò, dunque, di rassicurare Riccardo, per cui, con il consenso della figlia, la tutela passò dal cugino a lei, inoltre si decise di introdurre una certa distanza tra i due;

in secondo luogo, si coinvolse Riccardo nelle decisioni inerenti a lavori di sistemazione della sua casa, per concretizzare il suo ritorno a domicilio.

 Questa frase non fu più pronunciata, così come la frase successiva:

“Le case sono fredde e non si riscaldano mai”

Precisava: “Non voglio tornare a casa, perché le case sono fredde”. Dopo mesi di permanenza in residenza, Riccardo perse la speranza di tornare a casa. Questo pensiero lo spaventava: la casa era vuota, senza moglie e figlia, ed ora senza madre, che nel frattempo era morta.

Egli sapeva che i termosifoni erano nuovi, ma ogni tentativo di convincerlo rimase vano. Il riscaldamento non c’entrava, ovviamente! La sua casa non poteva essere riscaldata.

Con il nuovo progetto, Riccardo iniziò a frequentare di nuovo casa sua, insieme ai volontari e alla badante e con il passare del tempo, egli riconobbe che le case potevano riscaldarsi, grazie alla presenza della gente.

 

“Non sono solo perché sono un internazionale”.

Riccardo rimase completamente solo nella sua vita: una solitudine insopportabile, che gli tolse ogni speranza di una vita diversa dal ricovero nel servizio psichiatrico. Riccardo, nel delirio, generalizzava, come abbiamo già visto: spandeva quindi la sofferenza all’intera umanità, poiché soffrendo da solo, non avrebbe potuto reggere il dolore.

Riccardo non era solo perché era un internazionale: si difendeva, così, dall’angoscia di morte, dal nulla. La sua solitudine era come quella di tutta l’umanità, né più, né meno: la sofferenza diventava più accettabile se era sofferenza del mondo intero.

Con l’aumento dei permessi a casa, egli riconobbe di essere solo e prese coscienza della sua paura della solitudine, per cui cercò sempre di più sua figlia: le chiedeva, ogni volta, quando intendeva tornare e non avrebbe mai voluto che ripartisse per la città in cui viveva.

Oggi, egli afferma: “Io sono di C. (il suo paese)”. Non è più un internazionale.

 

“Non voglio avere niente a che fare con mia figlia, perché lei è progressista ed io conservatore, per cui non potremo mai andare d’accordo”.

Al momento della separazione dalla moglie, la figlia di Riccardo aveva otto anni; quando fu ricoverato “definitivamente” ne aveva venti. Viveva in una città lontana dal padre e, di conseguenza, lo vedeva di rado. Quando veniva a visitarlo, peraltro, Riccardo manifestava un atteggiamento apparentemente anaffettivo: la invitava ad andarsene dopo pochi minuti. Aveva troppa paura che il suo solo desiderio di incontrarla potesse generare un rifiuto in lei e, allo stesso tempo, la figlia era convinta che suo padre non desiderasse vederla.

Nel nuovo progetto, le visite vennero fissate ogni quindici giorni e si organizzarono incontri con una psicologa, finalizzati ad il riavvicinamento tra padre e figlia. Nel corso dei mesi la relazione si è ricostruita.

 

Riuscii a fare ottenere a Riccardo l’assegno di accompagnamento per mantenerlo a casa con l’aiuto di una badante.

 Dopo alcuni mesi dalla dimissione, la badante dovette tornare a casa e si trattò, quindi, di cambiare e ricominciare: cambiamenti non facili per Riccardo.

La fine di una storia di cronicità.

Di recente, la figlia mi scrisse questa lettera che riassume il suo percorso, la sua visione della nostra collaborazione e degli esiti del nostro progetto.

“Cara Betty,

Sto attraversando un momento della mia vita molto importante e difficile: ammetto di avere paura per la partenza di B. (badante), ma io e papà ci siamo ripromessi di superare questo momento insieme!!! Lunedì scorso sono venuta a casa per salutare B., per dirle di persona grazie per avere fatto insieme a tutti noi questo percorso, per papà importantissimo.  E’ stato difficile mantenere il controllo davanti a lui, ma ha capito bene la situazione.

Abbiamo parlato tanto del cambiamento che ci sarebbe stato; ho cercato di renderlo il meno doloroso possibile per tutti e due ed ho cercato di fargli capire che lo tenevo per mano e che avremmo camminato sempre insieme verso questa nuova avventura, che la vita ci ha messo davanti…… ma ammetto di avere ancora tanta paura…..

Ma ricordo sempre di avere al mio fianco persone come te, C. (educatore) e tutto il gruppo, che siete e sarete sempre, fondamentali nel mio e nel percorso di vita di papà.

Grazie, Betty, per tutto, per avermi dato la forza e la costanza di continuare, per avermi affiancato in questa lunga strada, per avermi consigliato, ma, soprattutto, per averci creduto, come ho fatto io.

Sappi sempre che in qualsiasi posto andrai, io e papà saremo sempre con te… ti meriti felicità, amore, soddisfazione e tanta serenità per te e per la tua famiglia.

Pensa che ieri sera era papà a rassicurare me, a dirmi che andava tutto bene e che non dovevo preoccuparmi!!

Credo che la mia storia, come tante altre, debba dare la forza a tutte quelle famiglie che, nella mia stessa situazione, non riescono a trovare uno spiraglio di luce.

Io la luce l’ho trovata, grazie a te ed è questa luce che mi accompagna quotidianamente nel cammino con mio padre!!!

E’ e sarà sempre il mio maestro di vita.

Grazie di cuore,  Alessandra.”

 Riccardo vive in casa sua, è sereno, nonostante il cambio di un’altra badante.

Alessandra è andata a vivere all’estero, ma  torna ogni mese per vederlo. Gli è vicina.

Dopo la dimissione, il servizio ha affidato all’educatore la responsabilità della continuità terapeutica.

Riccardo, da tre anni, vive la sua vita senza l’incubo dei ricoveri.