Diventare protagonisti di una storia di cura

Elisabetta Rossi Gallani Infermiera - SSM AUSL Reggio-Emilia Servizio di Salute Mentale - Castelnovo nè Monti

 

 

Rivista di freniatria volume cxxxi num 3/2007 "

Politiche di salute mentale in Italia e in Europa"

 

Caso deriva dal latino casus, caduto, qualcosa che compie un tragitto, cade e resta immobile, e in quanto tale si offre come oggetto di conoscenza. Il caso, inoltre, accade pur non volendolo, in modo accidentale, fortuito, mostrandoci così la nostra finitezza. È segno del destino che  non tiene conto dei nostri desideri, progetti di vita, decisioni, e proprio per questo ci distacca dolorosamente dalle nostre certezze. Ogni caso clinico è manifestazione del dolore e del destino. Il dolore si colloca fra desiderio e destino, come necessità ineludibile. E’ diffuso nell’esistenza psicotica, non dolore nel corpo – spesso chi soffre nella mente si disinteressa del corpo e non se ne cura -, dolore che assorbe e significa tutta la sfera dell’io. Dal dolore può nascere un nuovo modo di esistere e così può nascere la follia. Il delirio è la forma psicotica di governo dell’angoscia, come difesa estrema dall’angoscia di morte. E’ un tentativo di difesa dal nulla, mentre la relazione è il nostro aiuto. Noi che curiamo entriamo in gioco qui, nella relazione la cura sta nel prendersi cura del delirio, nel mostrarne la sensatezza. ”La relazione cura nel momento in cui si pone come creazione. In altre parole si pone come produzione di spazi intrinsecamente paradossali, non prevedibili, né immaginabili, di senso e di non senso”[1]. Ogni relazione umana che apre spazi paradossali è, al tempo stesso, cura e creazione, in quanto si apre al senso e ne scopre orizzonti infiniti, al di là di ogni logica ricorrente.

 

 

Una strada senza via d’uscita

 

 Il caso di Serena, più di altri, mi ha aiutato a comprendere quanto l’esistenza psicotica sia devastata dalla sofferenza e quanto l’incontro sia luogo privilegiato della cura, sua condizione irrinunciabile. Parole, silenzio, gesti, sguardi che intercorrono tra chi cura e chi è curato sono i veri strumenti della cura.

I gesti, le parole, i silenzi di Serena raccontano il dolore che turba senza posa la sua anima e nutre in lei l’angoscia della morte e del nulla. Il suo originale linguaggio illumina quella sofferenza, svelandone il senso con lampi improvvisi di espressioni e gesti inattesi. L’uso di lingue straniere, assonanze e neologismi mostra che la psicosi è anche esperienza creativa, che si esprime in modo inedito, autentico, geniale, fuori dei moduli correnti e prevedibili del linguaggio comune. 

Serena èricoverata presso la nostra struttura residenziale dal 1992.

Compì i suoi studi  a Reggio Emilia, diplomandosi come segretaria d’aziendae lavorò prima in una ditta che produceva prosciutti, poi anche presso il municipio, sempre a Reggio. All’età di 21 anni si manifestarono, per la prima volta, i segni della sofferenza psicotica e fu ricoverata nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Rimase incinta a 27 anni e non rivelò mai chi fosse il padre del bambino. Tornò, quindi, alla casa paterna, ragazza madre, in un piccolo paese della montagna, esposta a ciò che di peggio riservava vivere quella condizione, in quegli anni e in quei posti. Lì trent’anni fa (oggi forse un po’ meno) si viveva in casa propria e in quella degli altri, in una sorta di gruppo familiare allargato, dove ognuno conosceva tutto di tutti. Le situazioni come quelle di Serena facevano scandalo ed esponevano alla vergogna più pesante la persona che le viveva e la sua famiglia. Serena rimase con i genitori e con il figlio. Era legata soprattutto a suo padre, che le voleva bene e la proteggeva. Lei lo adorava (lo ricorda sempre nelle sue preghiere).

 Il bambino fu cresciuto da lei e dai suoi genitori fino all’età di otto anni, poi dalla sorella in città, che ne divenne la mamma a tutti gli effetti. I familiari decisero di allontanarla dal figlio, perché dopo che era divenuta la ragazza madre del paese, agli occhi degli altri poco seria, sedotta, abbandonata, matta, sentendosi schiacciata dalla vergogna, dalla colpa e dalla maternità,  naufragò nell’angoscia e riprese a delirare, dapprima confusamente, poi con maggior chiarezza. I ricoveri presso l’Ospedale Psichiatrico divennero frequenti e i periodi in cui tornava al paese, “normale”, erano sempre più brevi. Serena fu presa in cura dal nostro servizio  nel 1980 e seguita a domicilio fino al 1989, anno in cui fu ricoverata in trattamento sanitario obbligatorio. In seguito rimase per un anno presso una casa di cura privata. L’infermiera che allora la seguiva, alla quale ho chiesto notizie per ricostruire la storia, insiste molto sul fatto che l’allontanamento dal figlio fu un trauma gravissimo, mai superato, il “colpo di grazia”. Andava a prenderla periodicamente in clinica e l’accompagnava a casa per farle trascorrere qualche ora con i familiari e con il figlio, in modo che potesse continuare a vederlo, a sentirne la presenza.  Serena continuò a peggiorare, non si curò più della propria persona, regredì al punto da farsi tutto addosso. In clinica “disegnava i muri con le feci”, quasi rappresentando la sua condizione di vita.

 La conobbi nel 1991, appena arrivata a lavorare al servizio, dove veniva per i colloqui con il medico. Era una signora fine, ricercata nel vestire e aggraziata nei modi. La prima volta che la vidi, ricordo che indossava un vestitino rosso, leggero, di ottimo taglio e una borsetta in tinta. Sembrava si stesse recando a una cerimonia, era sempre educata e gentile. Durante l’attesa fumava una sigaretta dopo l’altra. Dava l’impressione di dover sfogare un’ansia insopportabile, e più il tempo passava, meno riusciva a mantenere quell’atteggiamento signorile che amava molto mostrare.

 Un anno prima era stata trasferita dalla clinica alla nostra struttura e vi era rimasta qualche mese. Aveva smesso di delirare, quindi era stata dimessa per tornare al paese, a casa dei genitori. Riuscì a reggere, in quel contesto, per oltre un anno, quindi entrò di nuovo in struttura e da allora non è più stata dimessa.

Più il tempo passava e più Serena si ritirava in un mondo tutto suo, nella sua stanza, divenuta il luogo del suo lavoro di “segretaria del SIMAP”, non volendo più uscire nemmeno per brevi passeggiate. Si isolò a tal punto che oggi per lei è una tragedia rimanere fuori dalla sua stanza mentre si fanno le pulizie. Rimane seduta sulla seggiola, in mezzo alle porte, angosciata e spaventata, assicurandosi chenoi non ci allontaniamo. La dobbiamo accompagnare a far la doccia, a lavarsi i denti, a pettinarsi. Ci dobbiamo prendere cura di lei costantemente, in ogni azione della vita quotidiana. Durante la doccia, la nostra vicinanza deve essere tale che non possiamo evitare di inzupparci d’acqua, altrimenti il panico dilaga, si diffonde in lei e da lei in noi, le sue urla echeggiano nella struttura. Credo che l’angoscia d’abbandono sia divenuta, da quei tempi, inarrestabile. Da quando “lui” l’abbandonò, da quando la si allontanò da suo figlio, da quando le sue attese la abbandonarono, lasciandola senza via d’uscita con i suoi disperati desideri come unica realtà.

 

Il case management: una nuova prospettiva per l’operatore e il paziente

 

Da alcuni mesi abbiamo concordato in équipe di lavorare con Serena applicando la metodologia del  case management. Si tratta di elaborare ed attuare un programma di cura, gestito e coordinato da un operatore formato a svolgere una funzione di coordinamento (quella che già trent’anni fa Piro definiva direzione di trattamento[ ]). Il case manager ha la responsabilità di attuare il programma, di realizzare con pazienti psicotici relazioni che siano luogo di cura, perché rifuggono da ogni reificazione e oggettivazione. La ricerca e la donazione di senso, la ricerca e la soddisfazione dei bisogni  diventano così fattori di trasformazione e di inclusione. La cura viene organizzata in interventi polifocali, concordati con i pazienti e fondati su una lettura ampia dei loro bisogni (Piro).

Il progetto di Serena prevede un lavoro di rete con operatori interni al servizio (assistente sociale, educatore, medico ed infermiera referente territoriali, infermiera referente della residenza), con la famiglia e con il Comune, per realizzare un percorso graduale di deistituzionalizzazione. La metodologia del case management ha permesso di riprendere il percorso da dove si era interrotto, dal “non c’è più niente da fare”. Dopo anni si è tornati a discutere insieme di lei, si è concordato sulla necessità di dimetterla, e si è riusciti a condividere questa prospettiva con i familiari. Abbiamo osservato con loro che, trattenendo Serena in residenza, non si potrà più andare oltre, e solo tracciando i percorsi verso una realtà esterna, non dimenticandola mai come meta, sarà possibile ottenere cambiamenti significativi. Anzi il vero cambiamento sarà la condivisione con Serena di un tale percorso e il compierlo insieme. Si tratterà della deistituzionalizzazione sia di Serena, sia dell’équipe.

 Non ho mai perso la speranza che Serena potesse migliorare e potesse prospettarsi, per lei, un futuro “fuori”, seppur assistito e protetto. Perché questo avvenga, bisogna “agire criticando continuamente se stessi” (come diceva spesso Basaglia ai suoi operatori [2]). Dal momento in cui mi sono sentita responsabile del progetto di Serena, in qualche modo responsabile  della sua vita, ho iniziato a interrogarmi sul senso del suo delirio e a pormi l’obiettivo della sua decodifica, senza la quale non avrei potuto elaborare un progetto che rispondesse coerentemente ai suoi bisogni.

 

 

 

Il senso del delirio

 

La sua stanza è il suo rifugio. Ci sono le fotografie del figlio e della nuora, del nipotino, del papà che è morto. Sul comodino tiene, in fila, i regalini che i familiari le fanno e sulla scrivania pupazzetti e  carte da gioco, che muove continuamente, mentre svolge il suo lavoro di segretaria nell’AUSL”.

“Sono la moglie del dott. Zeta, lavoro al “S.I.M.A.P.” come segretaria e non sono malata”. Queste parole le ripete ogni giorno, e chiede rassicurazioni continue sul fatto che i suoi familiari stiano bene, che nessuno sia morto, che il dott. Zeta non l’abbandoni e che nessun altro uomo, per nessun motivo, entri nella sua stanza. In passato, durante i primi anni del ricovero, fu ritenuto opportuno che Serena rimanesse in stanza da sola, poi si decise in équipe di cambiare questa abitudine, che l’aiutava a isolarsi. Iniziare a farle dividere la stanza con un’altra ospite fu un’impresa non facile, ma le consentì di  parlare con qualcuno, anche se solo per “brontolare”, invece di rivolgersi solamente ai suoi pupazzi. Fino a quando il letto accanto al suo è stato vuoto, lei vi stendeva il suo pigiama e quello era suo marito, il dott. Zeta. Guai a chi si avvicinava a quel letto! Lei si sdraiava accanto e se entrando le chiedevamo cosa stesse facendo, ci rispondeva che stava facendo l’amore con suo marito, invitandoci ad uscire. Lo stesso faceva quando saliva in macchina. Accanto a lei c’era sempre suo marito e guai a chi si sedeva sul sedile vuoto, ma, per lei, occupato dal dott. Zeta. Essere la moglie del dottore riscattava la vergogna sua e dei  suoi familiari. Tenta, in questo modo, di rimuovere la realtà tanto dolorosa di donna usata, poi abbandonata, forse abusata. Il dott. Zeta inoltre è colui che andò a “toglierla” di persona dalla casa di cura. Serena ne parla come di suo marito, che ama solo lei e non la lascerà mai, ma, quando viene a salutarla, lo chiama dott. Zeta e gli chiede come sta il figlio. In sua presenza il delirio lascia spazio ad una diversa dimensione relazionale, di comunicazione con l’altro, in cui Serena appare consapevole che il dott. Zeta non è suo marito.

Sembra che in lei perduri uno stato d’animo delirante (Wahnstimmung), che non è ancora del tutto delirio ed esita nella “rivelazione” del delirio in modo fluttuante, allorché eventi della realtà esterna vengono percepiti con angoscia e innescano una “frammentazione”. Serena ha bisogno di delirare per restare in vita, ma sullo sfondo rimane sempre la realtà, la variegata conoscibilità delle cose, seppur silenziosa, delle quali lei non parla, anzi si arrabbia ferocemente se qualcuno vi fa riferimento, come ad esempio se si accenna al tipo di relazione che intercorre fra lei e il dott. Zeta. L’angoscia e l’inquietudine raramente si attenuano e il “buio”, nella sua anima, poche volte sembra lasciare spazio ad un raggio di sole. Nei suoi occhi si scorge uno spiraglio di luce quando vede il dott. Zeta o il figlio. Il matrimonio del figlio è stato per lei il culmine della felicità, perché il suo “Do” (“d’oro”) non sarebbe più stato della sorella.

 In Serena il mondo “diverso” convive con il reale e l’angoscia non se ne va perché la realtà rimane sullo sfondo e non libera totalmente lo spazio al delirio. Non rimpiange diperò,so che non tornerebbe indietro se le si dicesse  essere mamma, a costo della sofferenza che le ha riempito la vita non rinuncerebbe al suo “Do”. Nell’atelier, mentre disegna un fiore, con straordinaria dolcezza aggiunge, “i fiori sbocciano nell’immaturità umana”, lei l’immatura e il figlio, il fiore. Non riesco a immaginare quanto Serena abbia sofferto per non essere stata aiutata a difendersi dalla vergogna e dal giudizio, per essersi sentita addosso gli occhi di tutto il paese, e poi il biasimo per non aver potuto crescere il suo bambino. Oggi il ragazzo è padre di un maschietto e ogni tanto viene a trovarla. Per tutto il tempo che trascorrono insieme, Serena gli chiede di continuo se le vuole bene, ripetendogli che lei è la sua mamma, che lui deve fare il bravo, volere bene a suo figlio, a sua moglie e non lasciarla mai.

Serena piange spesso, chiede aiuto e dice di sentirsi morire, chiama di continuo per assicurarsi di non essere lasciata sola.

Nella sua stanza è riuscita a rompere un cassetto dell’armadio, dove stavano riposte le scarpe che non indossa mai. Ora le tiene tutte allineate sul pavimento, davanti a quello spazio aperto e guai se si prova a riporle in modo che rimangano all’interno. Si infuria, si dispera e le riporta fuori, appena ci allontaniamo dalla stanza. Chiudere le scarpe che non indossa da anni, anche se non vuole uscire, sarebbe come chiudere la possibilità di una vita diversa, fuori dalla struttura, magari con il figlio, che è l’unica persona con la quale dice di volere vivere, quando “andrà in pensione dall’AUSL”. Credo che tenerle tutte pronte, come se le servissero continuamente, sia come tenere viva la speranza di poter partire, quando il figlio verrà a prenderla per portarla con sé.

Ad ogni pasto rovescia l’acqua contenuta nel bicchiere, capovolgendolo sul vassoio. L’acqua è linfa vitale e lei ne beve qualche sorso, lo stretto necessario, poi la getta, dicendoci così che la sua non è vita, ma sopravvivenza.

A volte Serena si concede uno slancio di apparente contentezza, lasciandosi andare a una risatina, quando pensa al figlio e al nipotino, ripetendo quanto sia bello e difficile essere madre. Ma la gioia è labile, passa in un soffio e se si prova a cogliere l’occasione per parlare con lei, fugge. Si sente il suo riso, la sua gioia d’essere mamma, ma i suoi occhi sono sempre velati di tristezza.

“Quando gli uomini dalla profonda tristezza sono felici, si tradiscono: hanno un modo di afferrare la gioia come se volessero schiacciarla e soffocarla per gelosia. Ah! Sanno fin troppo bene che da loro via se ne fugge” (Nietzsche [3]).

Serena si rinchiude nel suo mondo e sembra che non ascolti nessuno, difficilmente parla o risponde. A volte, però, quando le si chiede qualcosa con insistenza, le parole arrivano fulminee, giuste, anche se  pronunciate fuggendo, come a scappare da un contatto forzato e per lei troppo doloroso con la realtà. Nel suo apparente ritiro, tale che a volte si rischia di dimenticarsi di lei, non le sfugge nulla, in particolare i nostri stati d’animo. Ci lancia frecciatine quando siamo nervose, o pensierose, del tipo, “Ma ha per caso litigato con suo marito?”, oppure, “ Ma lei ha forse dei rimorsetti, che è così pensierosa?”, e ancora, “ Ma lei è proprio innamorata: sta con la testa fra le nuvole!”. Quando capita, invece, che qualcuno di noi abbia un momento di malessere, lei se ne accorge e, preoccupata, chiede se non ci sentiamo bene, poi ci invita a riposare.

Otto anni fa Serena iniziò a parlare una lingua strana, con qualche sprazzo d’inglese (“Good morning, yes”) e di francese, (“ Bonjour. Oui. Madame et Monsieur”), per il resto inventata. Lì per lì ci faceva sorridere, ma riflettendoci credo fosse il suo modo creativo per dirci “basta!”. Con noi e con il mondo aveva chiuso, da allora in avanti avrebbe parlato un’altra lingua. La parola tornò, poi, ad uscire dalle sue labbra in italiano, ma il linguaggio con il quale si rapportava con noi rimase profondamente segnato da questa universale chiusura.

Oggi raccontiamo a noi stessi di fare per Serena cose che le fanno bene: la doccia due volte la settimana, apparecchiare, sparecchiare e guai se non lo fa, perché farlo le fa bene, così come lavare i piatti e i pavimenti, le fa bene, anche se piange e si dispera. Perché piange e scalpita, quando le si impone di fare questi lavori? Forse, il dolore nel doversi cimentare nei lavori che una donna e madre fa tutti i giorni è troppo forte. La vita le ha tolto la possibilità e il piacere di farli, nella sua famiglia, con suo marito e con suo figlio.

Alcuni anni fa la si sollecitò a partecipare ad una gita al mare, sempre perché le avrebbe fatto bene. Fu una giornata terribile. Serena trascorse tutto il tempo avvinghiata alle braccia del medico, o degli operatori, tanto da lasciare i lividi, piangeva disperata e chiedeva aiuto, supplicando che la si riportasse “al SIMAP”. Non si staccò dalle nostre braccia nemmeno per andare in bagno. Al ritorno le chiesero cosa avesse mangiato di buono, rispose, “Ho mangiato rosbifo, morfico, porfico e ragù spento”. Serena, anche in questo caso, fu non solo creativa, ma soprattutto molto chiara, “rosbifo”, “morfico” e “porfico” sono cibi inesistenti, mostri per assonanza. Di fatto lei non mangiò, assaggiò soltanto un po’ di pasta su nostra insistenza, ma non ce la faceva, si sentiva morire. Il ragù lo assaggiò, ma era “spento”, perché l’unico sapore che Serena riusciva a sentire in quel momento era quello dell’angoscia. Ripensai spesso a quelle parole, che potevano sembrare una simpatica sortita di una  schizofrenica,  mentre invece, “la frase è per essenza normale. Essa porta la normalità in sé, vale a dire il senso… Qualunque sia lo stato, la salute o la follia di colui che la proferisce” (Derrida [4 ]). L’errore che si è compiuto è stato pensare la metamorfosi di Serena verso l’isolamento totale, e la metamorfosi dei significati,come espressioni cliniche e non come mutamento del suo modo di essere nel mondo.

 

Il desiderio di cambiamento

 

Serena è ricoverata dal 1992. Accade che si avverta, “a pelle”, quando è il momento di dimettere un paziente, e che se non si fa, per lui è finita. È una percezione comune a tutti gli operatori che lavorano in residenza. Accade qualcosa per cui tutti si è convinti che “ora o mai più”, un’intuizione di gruppo che inganna di rado.  

Questo accade ogni volta che un ricovero si protrae oltre un certo limite. Non so perché si “sente” quando è il momento di staccare da noi i pazienti. Forse dipende dal fatto che ventiquattro ore su ventiquattro mangiamo con loro, giochiamo, cuciniamo, leggiamo, disegniamo, ci arrabbiamo, ridiamo, guardiamo la televisione, facciamo feste, rifacciamo i letti, spazziamo, laviamo piatti… Serena non fu dimessa, per le forti resistenze dei familiari, e peggiorò.

Non dobbiamo dimenticare che “se le strutture residenziali diventano statiche, se si richiudono in se stesse, come anni fa il manicomio, se non sono zone di passaggio, trampolini di lancio verso il fuori,  verso la società, se non c’è un’intensa opera di riabilitazione, prima nel senso di discussione, dibattito, poi soprattutto di rimando, per i più giovani verso il lavoro e per i più anziani verso un luogo per loro idoneo, significa che abbiamo ricostruito ancora un manicomio. Il manicomio, tenete conto, ce l’abbiamo noi nella testa, cioè nella società, nelle cose che facciamo. Se noi chiudiamo i nostri pazienti in una casa con quindici posti letto, è più scomoda di un manicomio, dove almeno, ci sono spazi verdi ” ( Piro [5])

Da anni, i familiari temono il rientro di Serena a casa, anche solo per mezza giornata, come avveniva, invece, nei primi tempi. Spiegano che diventa aggressiva ed ingestibile. In vista dei fine settimana a casa, Serena iniziava due o tre giorni prima a chiedere quando sarebbe andata “in ferie”,  iniziava a fare il conto alla rovescia, e, prossima al momento di partire, si agitava molto, aspettando con ansia che venissero a prenderla. Una volta a casa, scalpitava per ritornare “al S.I.M.A.P.” e diceva ai familiari di non voler restare lì. Avvertiva la loro difficoltà, ritornava in un mondo di giudizi e di vergogna e preferiva, quindi, farsi riportare indietro? Una volta si defenestrò dalla sua camera. L’attesa, in lei, comunque, c’era sempre: Il momento di tornare a casa era tanto desiderato quanto sofferto. Al ritorno spesso piangeva disperata, rifiutava il cibo e diceva, “La mamma è anziana,  non ce la fa più, le voglio tanto bene”.

Ultimamente Serena è in crisi, perché sa di non tornare più a casa, di conseguenza, il suo progetto di “andare in pensione dal SIMAP”  e trascorrere il resto dei suoi anni con il figlio non è realizzabile, si lascia andare a momenti di pianto disperato, ripetendo che lei non ha mai fatto male a nessuno, nemmeno alla sorella e al cognato, non ha mai fatto la “puttana”, ha sempre lavorato seriamente e se ci fosse ancora suo padre, lui non avrebbe permesso a nessuno di trattarla così. Ci chiede come ci venga in mente l’ipotesi di farla accompagnare a casa da un’infermiera, perché lei ormai è anziana e non ha più voglia di mettersi in viaggio. Verranno i suoi a trovarla. La sua difesa è nel ricordarci che lei dal “S.I.M.A.P” non si muoverà finché non andrà in pensione, finché ci sarà il dott. Zeta e “finché morte non ci separi”.

La  restituzione al “fuori” è faticosa, ma cerchiamo di non rinunciare anche quando tutte le strade sembrano chiuse.

 

Il nulla come progetto

 

Serena ha esperienza del nulla, cioè di morte patita vivendo, dapprima nella vergogna, poi nell’allontanamento dal figlio, quindi nel delirio. E’ morta ancora quando è diventata un oggetto psichiatrico, ricoverata tra una clinica e un’altra. Ha continuato a morire quando il ricovero si è prolungato contro ogni sua speranza, tanto che ha dovuto trasformare la struttura nel suo luogo di vita e di lavoro.

A supporto di questa interpretazione, a partire dall’affermazione di Nietzsche, che “la volontà piuttosto di non volere vuole il nulla”, riprendo il pensiero di Italo Valent [6]. La volontà si pone come l’intero nella misura in cui rifiuta l’esistenza del suo opposto, cioè il non volere. Poiché la negazione è essenziale alla volontà, alla manifestazione della sua onnipotenza, la negazione della volontà è interpretata non più come il suo opposto, ma come suo oggetto: il nulla. La volontà, per essere fino in fondo se stessa, cioè forza onnipotente e misura dell’intero, deve mostrarsi capace della negazione totale ed è per questo che “inventa” il nulla, cioè un oggetto totalmente negativo su cui esercitare la sua potenza. Il paradosso è che, il nulla, dovendo essere all’altezza di soddisfare la brama della volontà deve, nel contempo, essere voluto come oggetto dotato di pari forza, onnipotente. Il nulla, in realtà, non solo è l’oggetto della volontà, ma anche il suo nemico. In primo luogo, perché il nulla deve essere voluto in quanto oggetto della volontà di potenza, in secondo luogo, perché il nulla deve essere “annullato” in quanto minaccia pericolosa per la volontà di potenza, in terzo luogo, perché il nulla deve essere di nuovo “rivoluto”, proprio come mezzo di distruzione del nulla stesso. Il risultato è che quanto più il nulla è oggetto della volontà, tanto più la volontà ne dipende, quanto più la volontà utilizza il nulla, tanto più ne è utilizzata, ne è vittima e quanto più ne è vittima, tanto più ne ha bisogno. La volontà vuole, senza saperlo, il suo logorio ed il suo esaurimento nel nulla, vuole proprio ciò che rifiutava come principio, cioè di non volere.

Questo concetto è di estrema importanza per comprendere che la follia può essere concepita come lo squarciarsi nella mente di questa verità. L’esistenza concepita e voluta come volontà di potenza è un’esistenza che, esperendo il nulla, come nel caso di Serena, esperisce anche il nulla di se stessa. Siamo nella contraddizione assoluta. Il delirio è il dolore estremo e, allo stesso tempo, il rifugio totale da tale contraddizione. Qui la volontà si costringe a volere altro, anzi ad essere voluta da altro. Il rapporto con il nulla si traduce nel rapporto con una realissima irrealtà. Il delirio è l’ultima possibilità, in questa vita, per resistere dall’interno alla trappola del nulla.

 

L’impatto della diagnosi e dei farmaci

 

La condizione di Serena, definita cronica, si fa dinnanzi a noi come situazione senza speranza. Come operatori ci siamo sentiti frustrati, perché in tanti anni Serena non era migliorata, perché i familiari non l’hanno voluta a casa, perché è rimasta ricoverata, perché non si investiva più su di lei. Mancava spesso il confronto, la discussione e il dibattito, di lei si parlava per dire che forse non c’era più niente da fare.

E’ mancata una riflessione sul perché nel momento in cui si è formulata una diagnosi, la si è classificata come psicotica cronica, abbiamo smesso di interrogarci e di chiederci come relazionarci con lei, cosa dirle, come cercare di alleviare la sua angoscia, come ascoltarla, quando  parlare e tacere, quando starle lontani o vicini, senza che si sentisse abbandonata o invasa. Insomma, l’abbiamo data per persa.

Abbiamo, per anni, cercato i colpevoli del fallimento terapeutico, ma non ci siamo mai guardati allo specchio. Abbiamo cercato la panacea nel farmaco e di fronte al fallimento abbiamo preferito mollare, altrimenti la frustrazione diventava insopportabile. Da anni identifichiamo la cura nel farmaco, trascurando l’importanza del contesto interpersonale, della relazione dialogica, non solo duale fra lei e il suo psicoterapeuta, ma anche fra lei e noi, in quanto purtroppo la nostra relazione non è stata, per parecchio tempo, ricerca d’incontro, della quale fanno parte anche il confronto in équipe, lo scambio di riflessioni, di critiche ed autocritiche e la ricerca di senso. A un certo punto si è aperto uno spiraglio: inquadrare Serena in un progetto di case management. La responsabilità del programma di cura ed il suo coordinamento sono diventati miei, ho sentito Serena “nelle mie mani”, “nelle mani” dell’équipe che, con entusiasmo, si è impegnata a portare avanti il progetto di vita.

 

Diventare soggetti

 

Serena è divenuta protagonista nel momento in cui noi operatori ci siamo sentiti coinvolti in prima persona, responsabili, capaci. Abbiamo compreso l’importanza del confronto con l’esperienza psicotica, siamo divenuti consapevoli che ogni gesto, ogni parola e ogni silenzio sono portatori di senso. Heidegger [7] ci insegna come la follia non sia il non pensare, ma il prendere un’altra direzione. Follia in tedesco è “Wahnsinn”, deriva da “wana”, senza, e da “sinn”, da “sinnent”, viaggiare via. Follia è viaggiare verso altri luoghi, prendere un’altra direzione, che rimane destinata al senso, in cui le persone, nel loro viaggiare, si trovano e si sentono sole, hanno nostalgia di una presenza che accompagna ed ascolta.

Quali sono gli altri luoghi verso i quali il paziente s’incammina? Sono quelli dell’alterità, dell’inquietudine e della solitudine. I luoghi di Serena. La sua vita si è trasformata in una vita non vissuta, dove la morte è sempre imminente. Non tanto la sua morte, quanto quella dei suoi cari che rappresentano l’unico punto di riferimento quando “andrà in pensione”. Una forte speranza - che richiede però impegno per vederla - sopravvive in lei, tiene in moto la sua vita. Là dove non arriva il delirio, là dove c’è ancora consapevolezza, emerge il desiderio.

E’ la tristezza rilkiana, la “tristezza maligna”, che ha trasformato la vita di Serena sospendendo i suoi sentimenti, paralizzando ogni protensione verso l’altro da sé, penetrando nel cuore e dal cuore nel sangue. E’ la tristezza di cui si può morire, non solo metaforicamente, ma anche concretamente, quando scompare ogni speranza. E’ proprio qui che Serena è protagonista. Abbiamo mantenuto la motivazione per non arrenderci, per non mollare tutto. Il cuore di Serena palpita tuttora di desiderio e speranza.

A volte mi capita di sentire qualche collega che dice che in psichiatria non si è infermieri. Il nostro lavoro appare inutile. Sono, invece, i nostri pazienti che ci insegnano che anche noi curiamo. Abbiamo delle ferite da curare, quelle del cuore, delle emozioni, che non sono facili a rimarginare, perché sanguinano, più o meno intensamente, ma sanguinano[1]. Serena non si è mai espressa in questi termini, ma nel suo prendere commiato dal mondo lo ricerca incessantemente. E’ alla continua ricerca d’aiuto per lenire la sua sofferenza, per curare le sue ferite. Chiede aiuto con il pianto disperato, sbattendo le porte tanto da scardinarle dal muro, con lo “sciopero” della parola quando i modi consueti e ripetitivi non bastano ad attirare l’attenzione. Così va avanti giorno per giorno chiusa  nella nostalgia del passato che le toglie speranza, futuro, storia.

Come possiamo non lasciarci prendere dalla demotivazione? Non smettendo di “esserci” nel dialogo, nell’incontro, nella continua messa indiscussione del nostro fare e del nostro pensare. Tocca a noi decifrare il “rebus”. “Nella Wahnstimmung (stato d’animo predelirante) tutti i segni sembrano semanticamente sospesi: l’intenzione di significato non si compie più e il linguaggio appare astratto (ma comprensibile), emotivamente disperso e stilisticamente peculiare. Nel delirio, che successivamente irrompe, il compimento di significato si realizza in modo distorto, con angoscia viva, percezioni deliranti, sentimenti (Erlebnisse) schizofrenici di derealizzazione ed estraneamento, mutamento pauroso di sé e del mondo.” ( Piro[8])

Ogni volta che ricoveriamo, è opportuno mantenere la consapevolezza che i pazienti sono i protagonisti della loro cura e che c’è un fuori che li attende. Il nostro compito èridonare la luce, non le ombre della malattia e dei muri della psichiatria.

Serena è sempre stata la protagonista della sua storia con l’équipe, nel senso che ha provocato in noi una successione di crisi affermando il proprio mondo di dolore, rimedi e desideri. Si è posta a fronte di una realtà (famiglia, paese) che l’avrebbe voluta segregata e ridotta all’insensato. Fra lei e questa realtà ci siamo stati noi, schiacciati, più volte in crisi. Serena non ha mai attenuato la pressione. Ci ha prima distratti, poi confusi, poi frustrati, finché infine abbiamo compreso. Prima abbiamo cercato di “normalizzarla”. C’è stato un momento in cui il tentativo sembrava riuscito. In realtà Serena ha opposto i suoi giudizi, le sue paure, e la dimissione non è avvenuta. È fuggito l’attimo, la speranza è svanita e il nichilismo ha preso il sopravvento. Serena era solo ammalata e tutto è stato rinviato al farmaco. Però ha continuato a parlare, ad alternare espressioni geniali, modi inattesi e giudizi  sorprendenti, in cui risuona il dolore, ma soprattutto la sua vitalità e creatività. Allora penetrano nell’équipe il disagio, il dubbio, il fastidio di un senso d’insufficienza, fino al momento in cui abbiamo ricominciato a interrogarci, a cercare il senso delle sue parole e dei suoi gesti, tentando di interpretare il suo delirio partendo dalla sua storia. Così si  è aperto il varco sul dolore, abbiamo individuato il rimedio, che sta nel delirio stesso, riconosciuto il desiderio e ritrovato la speranza. Ora lavoriamo per consentire a Serena di andare finalmente in pensione, come chiede da tempo, “dopo tanti anni di lavoro al SIMAP”, come dottoressa la pensione le spetta!  In tanti anni di “lavoro”, ha sempre svolto il suo dovere, mantenuto il suo impegno, non ha mai smesso di ripetere, spiegare alla sua équipe affinché finalmente capisse. Abbiamo imparato, ora può prendere la sua strada, soggetto delle sue scelte e protagonista fino alla fine.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

[1] Marzi V. Per una teoria della pratica della follia in Cura e salvezza. Bergamo : Moretti e Vitali;

                     2000. p. 57-73

[2]Basaglia F. Scritti II 1968-1980. Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza  

                      psichiatrica. Torino : Einaudi; 1982.

[3 ] Nietzsche F. La gaia scienza. Milano: Adelphi; 1965. p.11

 

[4 ] Derrida J. Cogito e storia della follia in La scrittura e la differenza. Torino :Einaudi;1971. p.39-79

 

[5] Piro S. Intervista. Corriere della Sera 19 maggio 1999.

[6] Valent I.  Dire di no,  Filosofia linguaggio follia.Castrovillari :Teda; 1995.

     Valent I. Tra il caso e il destino in: Il caso e le sue voci.Bergamo : Moretti e Vitali; 2002.

 

 

 [7] Heidegger M. In cammino verso il linguaggio. Milano :Mursia. Trad. A. Caracciolo. 1973.

 [8 ] Piro S. Parole di Follia. Milano: Francoangeli;1992. p. 49.

 

Ringraziamenti: un particolare ringraziamento a Serena e a tutti i pazienti che in questi anni di lavoro mi hanno insegnato infiniti valori umani, che ho scoperto nell’indicibile, nell’inverosimile, nei loro deliri impregnati di sofferenza, ma anche di creatività e di senso, senza fine.

Grazie ad Augusto Gentili e a Stefano Crosato per il loro contributo, a Yvonne Bonner per il suo sostegno, a Raffaele Galluccio per l’ascolto e l’insegnamento continuo.



[1]Un paziente ci chiede protezione per le voci che lo perseguitavano, per le vipere che gli corrono nel letto, per il fuoco dell’angoscia che lo arde e lo porta a denudarsi correndo per la strada, per i sensi di colpa che lo invadono dal tempo del servizio militare dice: “Voi sanate le mie ferite che sanguinano, così per un po’ non sanguinano più, poi purtroppo ricominciano; allora vengo qui e voi mi curate”.