Come si fa? Salute mentale di territorio e ripartenza
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- Pubblicato Lunedì, 26 Ottobre 2020 17:59
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Come si fa? Salute mentale di territorio e ripartenza
Antonello D’Elia
intervento tenuto alla riunione del coordinamento Conferenza Nazionale Salute Mentale il 17 ottobre 2020, evento di Màt Modena – settimana della salute mentale
In piena emergenza COVID la necessità di investire in salute è sotto gli occhi di tutti. Arriveranno, si spera, fondi anche alla salute mentale che andranno gestiti: chi deciderà come verranno impiegati? Tra i temi centrali delle attività di Psichiatria Democratica riproponiamo quello della formazione.
Chi saranno le persone che lavoreranno nei servizi di salute mentale? Sapranno cosa fare o applicheranno protocolli, seguiranno linee guida, useranno il buon senso o, è possibile, asseconderanno i loro personali convincimenti?
L’attesa dei fondi europei ha già attivato fantasie da cuccagna e appetiti per lobbisti. Per quanto riguarda la Salute Mentale il loro impiego andrà orientato e monitorato per evitare che vadano in altre mura, letti, suppellettili d’arredo, assunzioni di medici e psicologi provenienti dalla asfittica formazione accademica e vengano trascurate altre figure professionali decisive per una buona salute mentale territoriale come infermieri, educatori, riabilitatori. Certamente i luoghi della salute devono essere congrui e decorosi per spazi e accoglienza, come spesso non sono CSM e Centri Diurni. Ma se la cura degli spazi è importante non meno quella delle persone che li abiteranno, l’auspicato personale del futuro. Una salute mentale di territorio richiede competenze, organizzazione, consapevolezza delle prassi efficaci, capacità di confronto con le esperienze migliori esistenti e di adeguamento ai contesti sociali in mutamento. Siamo certi che queste abilità non provengono dalle aule universitarie ma da anni di pratiche ed esperienze di lavoro con le persone, di progetti realizzati, di sfide accolte e vinte. Il laboratorio sociale e sanitario dei servizi territoriali ha costituito in passato il motore di queste attività e il presidio di una cultura trasmessa attraverso lo scambio pratico tra generazioni di operatori, prima ancora che attraverso l’apprendimento scolastico. Nei servizi sempre più sguarniti e occupati da personale stanco e anziano lo scambio generazionale è da tempo venuto meno, basti controllare i dati sull’età media degli operatori della psichiatria italiana. Eppure viene auspicata una rivoluzione culturale, magari rievocando quello straordinario movimento di persone e idee che portò alla legge 180 e alla sua applicazione. Dobbiamo allora ricordare che un lavoro territoriale di comunità rispondente a criteri di efficacia, capace di confrontarsi anche con i suoi esiti qualitativi e quantitativi, di governare processi complessi come quelli che possono condurre allo sviluppo di autonomie personali, a una reale inclusione sociale, all’attivazione di risorse umane, familiari e sociali, richiede investimento e apprendimento: in una parola formazione.
Proviamo allora a elencare, per difetto, una serie di obiettivi fondamentali per l’acquisizione di capacità e competenza pratiche. Non un elenco di precetti ma una serie di aree d’azione ciascuna delle quali, come tradizione per Psichiatria Democratica, rimanda a proposte concrete per realizzarsi. Ciascuna richiede apprendimento e insegnamento. Ci chiediamo allora “come si fa” a fare quello che è richiesto nel lavoro di salute mentale territoriale, l’unico in cui ci riconosciamo.
Come si fa a svuotare i grossi contenitori residenziali e trasformarli in piccoli luoghi di abitazione? Come si fa ad opporsi alla gestione totalizzante delle vite che avviene attraverso l’offerta di posti letto?
Come si fa a far capire, agli operatori e non solo, che le persone trascorrono molto più tempo fuori dai CSM e dai luoghi della psichiatria che al loro interno, e quindi considerare il ‘fuori’ come il contesto da rendere accessibile, vivibile, condiviso e non ostile?
Come si fa a non usare le REMS come sostituti ‘agili’ degli OPG?
Come si fa a far conoscere ai professionisti della salute mentale, ai decisori politici e ai magistrati i Protocolli Operativi, frutto del lavoro competente di Psichiatria Democratica e rifluiti in una risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura, che potrebbero trasformare il braccio di ferro con i giudici in una collaborazione che aiuta tutti gli attori in campo?
Come si fa a fare proposte di inserimento lavorativo reali e non di vuoto intrattenimento, attivanti e capaci di includere socialmente le persone seguite dai servizi di salute mentale?
Come si fa a far diventare la co-progettazione e il budget di salute degli strumenti operativi reali e non degli slogan consolatori per un futuro che non arriva mai, condividendo i progetti con la cooperazione integrata nell’operatività dei servizi e non subappaltata?
Come si fa a trattare i familiari non da colpevoli, né da nemici né da pedine strumentalizzabili nella lotta interna alle istituzioni?
Come si fa a ricoverare senza pensare che il paziente sia un pericoloso criminale da neutralizzare e che il TSO sia una punizione poliziesca per la sofferenza venuta fuori sotto forma di crisi?
Come si fa a non legare le persone al letto pensando che legando i corpi si pieghi la loro mente?
Come si fa a dimettere senza abbandonare in luoghi di parcheggio e senza prolungare reclusioni in ricoveri accreditati?
Come si fa usare i farmaci senza delegare a iniezioni, pillole e gocce il rapporto umano credendo che la chimica possa risolvere dove mancano le relazioni?
Come si fa ad utilizzare in maniera sapiente i numeri dell’epidemiologia senza accumularli per dovere istituzionale o piegandoli a ragioni di comodo?
Come si fa a riconoscere che la dimensione interprofessionale delle èquipe è l’unità di lavoro in salute mentale territoriale e non un assortimento generico di personale che non è addestrata a lavorare in gruppo?
Come si ad imparare che il rispetto non è un tema morale ma una modalità relazionale per abbattere le diseguaglianze e promuovere l’autonomia decisionale delle persone?
Come si fa ad imparare ad ascoltare senza passare subito ad agire?
Come si fa a utilizzare gli obiettivi di budget aziendali e gli indicatori ad essi connessi come strumenti al servizio di operatori e utenti e non come trucchi per risparmiare senza tenere conto della qualità o per spacciare per efficienza gli interessi di parte?
Come si fa a smettere di fare psicodiagnostica per i minori senza fare terapia?
Come si fa ad avere a che fare con le persone che provengono da paesi lontani nella disperazione senza considerarli d’ufficio delinquenti, approfittatori o malati?
Per passare da una astratta precettistica a un progetto formativo organico sarà necessario integrarlo negli obiettivi del rilancio della salute mentale territoriale che potrà derivare dai finanziamenti in arrivo. Se intesi come temi fondanti, avranno bisogno di indicazioni vincolanti, di agganci legislativi, di regolamentazioni stringenti che si oppongano alle degenerazioni sempre in agguato per ideologia o sciatteria e, infine, anche di contesti di apprendimento e monitoraggio con il coinvolgimento attivo degli operatori. Per ciascuno di questi unti che descrivono almeno una parte delle attività centrali nel lavoro di salute mentale possono esserci soluzioni specifiche di formazione e, al tempo stesso, modalità applicative chiare che indirizzino verso pratiche attente ed avanzate e vadano verso lo sviluppo di autonomia per le persone sofferenti e i loro familiari. Il personale che arriverà in salute mentale dovrà confrontarsi con queste pratiche e misurarsi con la loro attuazione. Abbiamo bisogno anche in salute mentale di investire in persone e educazione se crediamo sia fondamentale che i soldi che arriveranno non finiscano in cose e non anche in sapere.