intervento del dr. Pietro Pellegrini

 

ECM “La valutazione in salute mentale. Numeri, parole e persone “

organizzato da Psichiatria Democratica nei giorni 13 -14 dicembre 2022.

 

Intervento del dott. Pietro Pellegrini[1] svolto alla Tavola rotonda del Corso

"Annotazioni per un sistema di cura e giudiziario di comunità"

Abstract

La normativa italiana ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici civili e giudiziari tramite i dipartimenti di salute mentale. Per completare e rendere stabile il nuovo approccio occorre affrontare “i determinanti sociali della salute”, garantire i diritti delle persone con disturbi mentali autrici di reato, sostenere adeguatamente il welfare pubblico universale fondato sulla Costituzione. A partire dalle contraddizioni aperte e dalle crisi della politica, del sociale, della giustizia, del sistema penale, della psichiatria, il prendersi cura di tutti i bisogni della/con la persona sempre inserita nella comunità consente di andare oltre il curare o il punire, superare le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Un approccio olistico (One Health e Planetary Health) responsabilizzante e una giustizia riparativa applicabile, pur con le differenze regionali, nel contesto italiano sono i riferimenti per costruire un sistema di cura e giudiziario di/nella comunità.

Introduzione

Grazie per l’invito. Entro subito nel merito del titolo e ed espongo la mia tesi: per andare oltre il curare (in modo obbligatorio) o il punire, che più che un’alternativa sono le due facce della stessa medaglia, la coercizione, occorre “prendersi cura” e assicurare salute, giustizia e diritti alla persona con disturbi mentali autrice di reato dando così realizzazione alla Costituzione in primis agli artt. 32 e 27.

Un prendersi cura che parta dalla persona come fine (e non mezzo), prima risorsa (e non costo), sempre inserita nella comunità, di cui fanno parte tutte le sue articolazioni, compresi il carcere, le REMS, i centri di accoglienza per i migranti. Una persona che, nella libertà e responsabilità, partecipi ed esprima il consenso.

Un prendersi cura che deve andare oltre i servizi di salute mentale e quelli della giustizia, che si trovano ad essere i terminali di percorsi diversi, familiari, sociali, migratori, di disagio.

Il prendersi cura implica che in maniera simultanea vengano presi in considerazione tutti i bisogni della persona e ciascun servizio, per le proprie competenze, debba intervenire. Bisogni di base (cibo, casa, sicurezza), educazione, reddito, formazione lavoro, socialità, cultura e sport, devono trovare un riferimento in diritti umani e di cittadinanza, reali, esigibili, viventi attraverso una serie articolata di servizi.

La cultura della cura

La cultura della cura sostiene il welfare pubblico universale che si basa un patto sociale condiviso e partecipato. Ciò fonda la convivenza della nostra comunità nazionale. L’affermazione dei diritti individuali mediante un ragionevole accomodamento di fronte a conflitti o interessi divergenti, è inscindibile dai diritti sociali. Questa impostazione sostiene la legge 180 e la 81/2014 nonché la norma entrata in vigore con il DPCM 1 aprile 2008 in base al quale il diritto alla salute viene assicurato a tutti a prescindere dallo stato giuridico. Questa precisazione è tanto più importante nella misura in cui il nostro Paese ha deciso di chiudere OP ed OPG e quindi si fonda su un sistema di cura e giudiziario di comunità.

Il prendersi cura reciproco non è solo importante per la salute ma è la via della pace e della co-esistenza: la della “cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro” (…) “tutto è in relazione”, e “la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri”. [2]

Un’efficace prendersi cura richiede il lavoro di tanti soggetti e istituzioni che devono essere tutti consapevoli del loro ruolo nella costruzione della salute e del benessere di comunità. Non basta la pur necessaria collaborazione dei servizi di salute mentale e della giustizia mediante Protocolli, Tavoli ed al. utili per evitare palleggiamenti , conflitti o improprie deleghe alla sola psichiatria ma serve l’intervento multi istituzionale di comuni, prefetture, servizi sociali, educativi, enti di formazione, scuola e università, centri per il lavoro, agenzie per la casa, imprenditori, sindacati, associazionismo e luoghi di culto, tutti fondamentali per affrontare i determinanti sociali della salute che possono anche essere fattori di rischio per le condotte antigiuridiche. In altre parole dobbiamo sapere se abbiamo a che fare con poveri, discriminati e non solo con dei disturbi.

Con questo approccio si può passare dalla logica riparativa a quella preventiva. Vanno prevenuti gli Eventi sfavorevoli dell’infanzia (abusi, traumi, neglect), affrontate povertà di diverso tipo (economica, culturale, relazionale), l’abbandono scolastico, l’assenza di formazione-lavoro, l’uso di sostanze. L’intervento delle forze dell’ordine e della giustizia è spesso tardivo, lo stesso per i DSM. I servizi per la Salute mentale e della Giustizia non possono risolvere i problemi da soli: l’intervento deve essere olistico (secondo le concezioni One Health e Planetary Health) e prendersi cura della persona e al contempo della comunità.

Le crisi come possibilità

Il paziente psichiatrico autore di reato pone problemi complessi che, in questa fase, intrecciano diverse crisi. Va ricordato che chiudere l’OPG non era affatto scontato e ciò è avvenuto attraverso il sistema di salute mentale di comunità, le REMS (con circa 600 ospiti) e soprattutto mediante i servizi territoriali del DSM dove sono seguite circa 6mila pazienti. Un ambito, quello territoriale, rimasto nell’ombra mentre molto rilievo hanno assunto i temi delle liste di attesa per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, del numero dei posti REMS, delle detenzioni “sine titulo” con pressanti richieste di soluzione alle Regioni. Dimenticata anche dalla sentenza n. 22 /2022 della Corte Costituzionale, la condizione degli Istituti di Pena (dove nel 2020 “incidenti” molto gravi sono avvenuti a Modena e Santa Maria Capua a Vetere) e delle Articolazioni tutela salute mentale (ATSM) circa 300 posti. Ricordo che nel 2021, per lo stato di degrado, vi è stata la chiusura dell’ATSM Sestante a Torino.

E’ indubbio che il tema salute mentale e giustizia intrecci diverse crisi.

a) Crisi politica

La pandemia da Covid 19 ha determinato un’emergenza sanitaria trasformatasi in un fenomeno multisettoriale e globale, aggravando crisi pre-esistenti, tra loro fortemente interrelate, come quelle economica (del 2008), migratoria, climatica, alimentare, in mondo dove le guerre, ultima quella in Ucraina, provocano pesanti sofferenze, morte e distruzione.

Di fronte alla pandemia sembrava necessaria una svolta nelle politiche di welfare, ambientali, energetiche ma dopo il trauma e le promesse, le azioni intraprese per il rilancio del welfare pubblico e universale sono state deludenti e non strutturali. Questo ha messo in crisi la 833 e la 180, leggi nate nell’alveo di un percorso riformatore che ha portato a statuto dei lavoratori, abolizione di scuole speciali, di istituti per minori, divorzio, tutela e interruzione della gravidanza. Tutti temi che oggi sono di nuovo in discussione seppure in forme e con intensità diverse.

Nulla può essere dato per consolidato in quanto si assiste ad una crisi della Costituzione vivente, del patto sociale effettivo e del welfare pubblico universale. I rischi di regressione sono evidenti se non si avrà una svolta politica e culturale che porti a comprendere il valore del welfare pubblico, la necessità di un suo significativo finanziamento superando il tetto per il personale. Serve un piano attuativo della legge 180 in grado di dare riferimenti precisi a tutte le regioni. Un argine rispetto ad un localismo (l’autonomia differenziata si è realizzata) che fa sì che i servizi possano essere rimodulati (e ristretti) a seconda delle decisioni delle singole aziende sanitarie. La crisi politica é evidenziata dalla incapacità del Parlamento di riformare il codice penale del 1930, in tema di imputabilità, pericolosità sociale, misure di sicurezza, promuovere una nuova legge sulle droghe, la cittadinanza degli stranieri (ius soli), fine vita.

b) Crisi delle famiglie e del sociale

Nel nostro Paese è in atto un forte cambiamento demografico: invecchiamento della popolazione, modifica delle famiglie e una loro maggiore instabilità e conflittualità. Il 40% delle famiglie è costituito da un solo componente, un altro 30% da due e solo il 10% delle famiglie è con 4 o più membri. E’ evidente che siamo di fronte a condizioni di spiccata fragilità del welfare familiare. Ne derivano una maggiore dipendenza dai servizi (privati o pubblici) e forti spinte verso la neoistituzionalizzazione da un lato e l’isolamento, la solitudine e l’abbandono dall’altro. Occorre vedere l’invisibile, gli abbandonati, le persone chiuse in casa, la povertà e la disperazione delle famiglie. Bisogna vedere l’impatto della multiculturalità di prossimità che pone diverse concezioni delle relazioni di genere, dei modelli educativi, di cura e di vita.

L’Istat segnala che al 31 dic. 2020 erano attivi 12.630 presidi residenziali con 411.992 posti letto, pari a circa 7 per mille residenti, che diventano 9,9 al Nord Est e 3 al Sud.

La gran parte degli ospiti è anziana mente gli adulti (18-64 anni) sono 68.436 e ed hanno disabilità, disturbi psichiatrici e tossicodipendenza. 18.772 minori sono ospiti di strutture residenziali.

Il 92 % delle strutture è organizzata secondo il modello comunitario. Esse sono per il 75% a gestione privata ed occupano 343 mila lavoratori e 35 mila volontari.

Un sistema cresciuto ovunque, meno al Sud, come espressione di una crisi del welfare familiare e al contempo della incapacità politica e tecnica di promuovere in ogni fase della vita e a prescindere dalla salute una piena partecipazione alla comunità sociale.

Accanto a numerose testimonianze di solidarietà, ad una ripresa del senso del “noi” (del destino comune) avvenuto durante la pandemia, si sono manifestate diverse forme di frammentazione, separazione “noi- loro”, “io-altro” che si traducono in forme di xenofobia, condotte aggressive, non accoglienti, evitanti e abbandoniche e di razzismo (considerato da Lancet un’emergenza globale di sanità pubblica[3] in quanto compromette non solo la salute dei discriminati ma di tutti) il che ostacola inclusione degli stranieri e la costruzione della multiculturalità.

Se la pandemia aveva segnato il ritorno della priorità dell’umano, nella sua precarietà e mortalità, l’attuale fase è orientata al dis-umano e al post-umano, alla freddezza rispetto al dolore e alla morte e indifferenza al destino comune. Questo apre la via all’abbandono dell’altro persino in condizioni di emergenza (dis-umano) o a decidere secondo algoritmi e non relazioni viventi (post-umano).

Non vi è una politica che accompagni le persone nella formazione, lavoro e inclusione sociale, partecipazione alla vita delle comunità e nei percorsi di autonomia. La crisi dei corpi intermedi, dell’associazionismo, delle relazioni di vicinato ha conseguenze molto importanti in termini di salute e benessere facendo venire meno le funzioni di mediazione e di regolazione sociale. Occorre quindi superare l’idea della comunità mitizzata, del piccolo centro, per vedere lo stato reale, capire quali nuove forme di comunicazione e aggregazione propone il web. Siamo all’interno di una rivoluzione tecnologica che sta cambiando il funzionamento mentale, familiare, sociale, i modi di vivere, studiare, lavorare, viaggiare. E al contempo la stessa identità a variare (avatar e dissociazione del soggetto, mutato rapporto con il corpo) fino alla scomparsa del soggetto.

Nei servizi sono evidenti le sofferenze dei pazienti (in cerca di soggettività) e le difficoltà delle famiglie in comunità frammentate alla ricerca di un senso, talora non accoglienti, quando non apertamente ostili, abbandoniche e razziste. Una situazione che spesso spinge verso l’esclusione delle diversità, la loro segregazione e ad un grande stigma. Una recente ricerca DOXA sulla salute mentale per il Festival RO.MENS ha evidenziato che "oltre la metà della popolazione (65%) ritiene le persone con disturbi mentali pericolose per sé, quasi la metà (48%) pericolose anche per gli altri, con la possibilità di diventare facilmente aggressive e violente (55%), non rispettose delle regole sociali condivise (49%)".

c) Crisi della psichiatria

Nel prendersi cura è fondamentale i modelli di psichiatria.

Negli ultimi 40 anni si è affermato, parallelamente al neo-liberismo (“la società non esiste”), un modello di psichiatria, prevalentemente biologica, riduzionista, positivista, obiettivante e oggettivante, lineare (causa-effetto), statico. Una psichiatria che si fonda sulla diagnosi e il trattamento psicofarmacologico.

La psicopatologia esiste in sé ed essa è rilevabile come prodotto di una malattia (lesione, alterazione del funzionamento del SNC spesso presunta ma non identificata) cui è dovuto il fatto-reato. Ne consegue che la persona non può essere responsabile, né risponderne in sede giuridica. Quindi è non imputabile e dato che la malattia potrebbe ridare sintomi/comportamenti antigiuridici ne consegue la pericolosità sociale e pertanto l’applicazione di una misura di sicurezza che non può che coincidere con un obbligo di cura in una condizione “detentiva” o comunque al meglio in “libertà vigilata” da parte di chi è tenuto alla cura (lo psichiatra, il DSM) gravato dalla “posizione di garanzia”. Allo psichiatra non solo non si riconosce la difficoltà e peculiarità del compito, ma lo si può ritenere responsabile delle azioni (patologiche) messe in atto dal paziente non “ben curato”. (Una responsabilità che non è attribuita alla forze dell’ordine e magistratura per il reo recidivo). Cura e sicurezza coincidono. Le nozioni di infermità mentale, pericolosità sociale non vengono messe in discussione, realisticamente si prende atto della loro persistenza nel Codice Penale e con impegno tecnico e scientifico, si cerca di darvi validità e attuazione. La cura è “obbligata” e “coercitiva” secondo la sentenza 22/2022 della Corte Costituzionale va solo normata da una nuova legge in conseguenza della quale dovranno essere predisposte adeguate strutture. Se le terapie farmacologiche non portano a risultati (gli inguaribili, incurabili) allora non resta che la coercizione e la custodia.

Vi sono conoscenze scientifiche e Linee guida che possano sostenere simili posizioni? Per il malato mentale autore di reato in particolare per le cure non valgono la legge 180, la 219/2017 (consenso informato), la 18/2009 (Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità)? Vi è una sostanziale coincidenza tra persona, malattia, sintomi/comportamenti/ reati e obbligo di terapia. Non avendo coscienza di malattia, non sarebbe possibile il consenso della persona, né la sua partecipazione. Quando è presente una qualche consapevolezza, può essere l’adesione ai trattamenti a non essere stabile e ciò rende il paziente inaffidabile. Al più si ammette che certi atti-reati possano non essere frutto di patologia ma di libere scelte che tuttavia non possono riguardare la cura. Una “psichiatria delle certezze”, in grado di poter distinguere imputabili da non imputabili, di prevedere e prevenire e di superare le esitazioni e i limiti conoscitivi e delle terapie. Fino alla disposizione di un potere di coercizione che alla fine diviene non tanto cura ma custodia. In questo si potranno avere sicurezze professionali derivanti dalla comune condivisione di un approccio sostenuto e condiviso da psichiatria, giustizia, politica e opinione pubblica ed inevitabilmente si incentra sulle strutture e rischia di estendersi al disagio e a tutti i “disturbanti”, in particolare soggetti con disturbo di personalità e uso di sostanze.

Si crea così un sistema “escludente” e di conseguenza un più ampio divario con i servizi territoriali. La questione rischia di non circoscriversi a psichiatria forense e giustizia ma di estendersi a tutte le situazioni che si manifestano nel territorio e alle condizioni “grigie” e difficili da gestire negli istituti di pena.

Ridurre il reato a sintomo di una patologia e quindi inscrivibile al suo interno, solleva la persona da responsabilità ma al contempo la priva della possibilità di comprendere ed elaborare il fatto-reato che tuttavia resta ben presente in modo inquietante e indefinito nel mondo interno. Il malato torna ad essere irresponsabile, inconsapevole, inaffidabile, improduttivo e pericoloso.

La moderna psichiatria ha un riferimento biopsicosociale, culturale, ambientale, è incentrata sulle relazioni, evolutiva, ed è basata sulla complessità e su servizi organizzati per intensità di cura. La psicopatologia viene vista come frutto evolutivo di un complesso di fattori sempre coesistenti e reciprocamente interagenti, cui consegue una valutazione relazionale dove le potenzialità di cambiamento si realizzano mediante un concorso di elementi educativi, sociali, sanitari, giudiziari e di vita. Epigenetica e plasticità cerebrale, modulazione dell’attività del SNC dipendono dalle relazioni, dalle circostanze di vita (fattori traumatici e protettivi), dai determinanti sociali della salute mentale.

Pur con il doppio binario, tiene conto della sentenza della Corte Costituzionale (253/2003) secondo la quale la misura di sicurezza non può arrecare danno alla salute psichica della persona, sancendo così, di fatto una priorità delle esigenze di cura. Ancora la questione del consenso e partecipazione alle cure non può essere elusa dall’obbligo/coercizione ma per essa sono essenziali libertà e responsabilità (del paziente e del terapeuta che deve avere il “privilegio terapeutico”). Condizioni che per altro sembrano fondamentali anche ai fini dell’efficacia delle misure giudiziarie e di un miglioramento del funzionamento della persona.

Si passa dalla psichiatria e giustizia “dispositive” a quelle dell’accordo, del patto con la persona. La valutazione dell’imputabilità e della pericolosità sociale non hanno sufficienti basi scientifiche (sorvolando sulla qualità di moltissime perizie e sui pareri opposti espressi sui singoli casi). Le valutazioni sono dinamiche e basate sui fattori di rischio, precipitanti e di protezione e al tempo stesso consapevoli delle scarse capacità di previsione e prevenzione della psichiatria. I contesti familiari e sociali vanno sempre presi in considerazione, coinvolti e altamente responsabilizzati. La disabilità è psicosociale e quindi richiede ampie partecipazioni, diritti da realizzarsi mediante “consensi allargati”, sostenuti dalla presenza dell’altro. Un approccio che promuove l’inclusione e richiede confini ampi, permeabili, dinamici, piuttosto che fissi e rigidi basati su coercizione, chiusura restrizione degli spazi.

La posizione e il punto di vista della persona, consenso, motivazione, responsabilità sono parti essenziali della cura e del percorso giudiziario non incentrato sulla mera riduzione della libertà. La persona è sempre portatrice di risorse, della possibilità di esprimersi, di essere parte della comunità, di svolgere attività e assumersi responsabilità, anche con forme di consenso allargato e sostenuto dalla presenza dell’altro.

Una psichiatria “gentile”, incerta, carica di dubbi, ma anche di potenzialità, speranza, creatività. Una psichiatria che ricerca punti di incontro attraverso il dialogo con la persona e i contesti e sa modulare l’organizzazione e andare oltre le REMS per creare percorsi altamente personalizzati (con Budget di salute) di comunità. Un modello che deve tutelare meglio gli operatori, superando la “posizione di garanzia” per affrontare meglio i rischi e promuovere i diritti. Una psichiatria che assiste nella comunità e realizza un modello realistico, utopico e radicale dove ogni istituzione, mettendo tra parentesi la malattia, opera sempre con la persona, la famiglia, il contesto. Un modello aperto alle nuove sfide creando ogni volta le condizioni della cura e della sicurezza, nella responsabilità, sempre riconosciuta alla persona (con una nuova legge). Il reato non è sintomo di una patologia è vivo nel mondo interno e ciò dalla persona sofferenze e responsabilità e al contempo apre alla possibilità di comprensione ed elaborazione, di revisione e riparazione. Salute mentale e giustizia diventano parte della comunità. Si supera così un terribile isolamento e in questa concezione possono assumere diverse connotazioni anche i problemi delle risorse e delle organizzazioni.

Due modelli che interagiscono in modo diverso con la giustizia: la prima, con “certezze”, asseconda consolidate culture e prassi mentre la seconda, “nell’incertezza aderente al reale”, apre a possibili evoluzioni di entrambi i sistemi. Per entrambe vi è il rischio di una deriva custodiale, evitabile solo difendendo il mandato di cura attraverso una dialettica con la giustizia.

Tutto questo deve tenere conto che in ogni parte del Paese si sono presenti gravi carenze di risorse, di personale (della sua formazione) e di investimenti. I Centri di salute mentale sono strutturalmente insufficienti a far fronte alla domanda (15-20% della popolazione soffre di disturbi mentali e i DSM non arrivano al 2% di presa in cura). Occorre chiedersi come colmare questo divario, quali interventi attuare con i giovani, prevenire i disturbi e i suicidi (quasi 4.000 anno). Pur con tutti i limiti, come detto, la psichiatria di comunità italiana si fa carico di oltre 6000 pazienti con misure giudiziarie, 10 volte quelli in REMS.

d) Crisi della giustizia

Le differenze politiche pur esistenti, fanno molta fatica a tradursi in azioni stabili di valorizzazione delle persone e di (re)inclusione sociale. Una visione custodiale e poco inclusiva sembra trasversale agli schieramenti politici e seppure con diversi accenti, ha ampio spaio il c.d. “populismo penale”. Ciò porta, da un lato a proposte semplicistiche incentrate sull’inasprimento delle pene e il carcere (buttando la chiave) e dall’altro a ritardare il riconoscimento di diritti (come ius soli,) e l’approvazione di leggi (sulle droghe, ecc) che avrebbero effetti positivi sulla convivenza sociale. Anche nuove leggi come il c.d. codice Rosso (legge 69/2019) contro la violenza richiedono un’azione culturale, educativa e politica e non solo interventi di giustizia e welfare.

Circa 56 mila persone sono negli Istituti di Pena dai quali viene il drammatico allarme costituito dai suicidi (da inizio 2022 80 nei detenuti e 5 negli agenti). Dati che insieme alle recidive (circa 70%), fanno riflettere sul senso della pena e l’efficacia dell’attuale sistema degli istituti di pena che sono oggetto di molte critiche. Va tuttavia tenuto conto che il carcere è spesso il terminale di molte contraddizioni e carenze sociali e familiari sulle quali sarebbe necessario intervenire prima. Se il carcere può essere “patogeno” e “criminogeno” è evidente come vi sia la necessità di un cambiamento profondo evitando letture semplicistiche in base alle quali sarebbero i pazienti psichiatrici impropriamente reclusi[4] a determinare le crisi e disordini.

La questione delle liste di attesa per l’attuazione delle misure di sicurezza detentive e dei posti REMS, oggetto di un recente accordo della Conferenza Unificata[5], è l’espressione di culture molto radicate che fanno fatica a cambiare: il posto piuttosto che il percorso, l’attenzione alla forma più che alla sostanza, al declamare e disporre piuttosto che a vedere come dare realizzazione alle norme. Il riferimento sembra essere la legge 9/2012 e ciò rischia di portare le REMS al centro del sistema.

Del tutto sottovalutato il tema delle misure di sicurezza detentive “provvisorie” che sono alla base della lista di attesa (dove raggiungono il 70%) e dell’ (impropria) occupazione dei posti nelle REMS (oltre il 40% dei posti).

L’iterazione tra psichiatria e giustizia diviene cruciale, ed in questa dialettica, in particolare nella capacità di preservare ambiti di autonomia e specificità del mandato di cura sta il futuro della riforma.

Se la pena e la limitazione della libertà non rilevano rispetto al diritto alla salute, né su tale base vi sono provvedimenti coercitivi, questo principio viene messo in dubbio per il malato mentale? In questo senso preoccupa la sentenza 22/2022 della Corte Costituzionale che vede come obbligatorie e coercitive misure di sicurezza detentive e al contempo dispositivi di cura per le persone con disturbi mentali autrici di reato per le quali, giova ripeterlo, non dovrebbero valere la legge 219/2017 sul consenso informato e la 18/2009 che ratifica la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità? Una linea che sembra estendersi anche all’ambito civile dove l’Amministratore di sostegno con compiti anche sanitari potrebbe “imporre cure obbligatorie”. O dove la misura della libertà vigilata viene applicata “con l’obbligo di residenza” in Comunità o in un luogo di cura.

Come prendersi cura?

Il modello custodiale, ereditato dagli OPG, è quello applicato in molte REMS[6]. La capacità di assicurare la restrizione del paziente, associata a cure in un contesto non così stigmatizzato e degradato come era l’OPG, fa sì che esse siano viste come la soluzione preferibile al carcere e alla comunità terapeutiche.

REMS che sono state utili per chiudere l’OPG richiedono ora una profonda riforma a partire dalla domanda: è ancora necessaria una struttura sociosanitaria per l’esecuzione di una misura di sicurezza? Senza cambiamenti le REMS rischiano di trasformarsi in pericolosi “miniOPG” perdendo progressivamente capacità terapeutica e accentuando quelle custodiali di persone difficili, “disturbanti” con comportamenti aggressivi e irresponsabili?

A questo proposito vi è chi vorrebbe un completamento e una differenziazione delle REMS. “In Italia oltre alle REMS, che appaiono idonee alla gestione di pazienti da media-sicurezza, ma che non dispongono di strumenti atti a contrastare l’aggressività predatoria o pazienti psichiatrici molto violenti, non sono previsti servizi psichiatrici dedicati agli utenti forensi; l’utilizzo di modelli già sperimentati in altri contesti potrebbe semplificare i processi di presa in carico, individuando dei percorsi che consentano progressivamente maggiori margini di libertà, pur mantenendo delle caratteristiche di maggiore protezione degli stessi utenti e della collettività.”[7] Si ipotizzano servizi di “alta sicurezza” e dedicati agli utenti forensi per contrastare aggressività e violenza, il che porta a riflettere su quale debba essere la gestione di dette strutture (sanitari, penitenziaria o mista?) e se tali servizi non assomiglino alle Articolazioni Tutela Salute Mentale degli Istituti di Pena. Il rischio che siffatti servizi divengano il riferimento delle pratiche di una nuova istituzionalizzazione, nella misura in cui si rilancia implicitamente la nozione di “pericolosità a sé e agli altri” e il “trattenimento”, il controllo del comportamento e il restraint, la contenzione (fisica, meccanica o farmacologica), l’isolamento e le porte chiuse divengono parte del mandato mediante una regolazione della libertà ed una sua progressiva (ri)acquisizione in base alla condotta. Una libertà da conquistare sulla base del comportamento e dell’adesione alle cure, creando un’associazione cura e punizione al quanto confusiva.

Vi è il rischio accentuare le componenti custodiali delle REMS (sulla scia di molti SPDC restraint), di ampliare la distanza con i servizi territoriali e di compromettere ogni residuo di libertà[8] e di responsabilità creando così le condizioni per una nuova prolungata istituzionalizzazione? Le REMS verrebbero distinte ad alta, media, bassa sicurezza, con funzioni di “osservazione e diagnosi” e terapeutico riabilitative.

Un approccio che per lo meno andrebbe sottoposto a garanzie[9] ma soprattutto ad una verifica di efficacia, anche in relazione alla scarsa trasferibilità delle competenze, in quanto il funzionamento è relazionale e quindi strettamente connesso al contesto, ma anche non vi sono evidenze e Linee Guida che sostengano di un’efficacia dei trattamenti farmacologici a lungo termine, né dei trattamento basati esclusivamente sulla limitazione della libertà e la punizione.

Nel setting forense (ma non solo) i pazienti non formulano autonomamente una richiesta di cure e quindi vi è la necessità di arrivare al consenso mediante strategie di aggancio per stabilire una relazione di fiducia e costruire un clima terapeutico collaborativo.

Una fase che è difficile, complessa che, in ogni caso, non può essere elusa o semplificata attraverso la coercizione. E’ quindi necessario che in ambito penale ma anche in quello civile non si pensi che al malato mentale possano essere poste, in relazione alla sua salute quindi senza commissione di reati, condizioni limitative della libertà individuale e al contempo obblighi di cura, patti di "rifioritura"[10] o altre forme di coercizione "benigna" da estendersi progressivamente tramite amministratori di sostegno o giudici.[11]

Il consenso è essenziale e sono di assai difficile realizzazione le cure imposte dall’autorità giudiziaria tramite l’applicazione della misura di sicurezza come testimoniano i ricoveri in TSO dei pazienti ospiti delle REMS. In altre parole la misura di sicurezza, si associa, appoggia, spinge verso la cura, ma non ha al proprio interno la forza per imporla, né in tal senso sono organizzate le REMS.

Ciò sarebbe in contrasto con le leggi del nostro Paese (in particolare la 180 e la 18 /2009) nonché con gli orientamenti europei e delle Nazioni Unite[12] per i quali non è possibile la cura senza il consenso e la partecipazione della persona (“nulla su di me senza di me”) e il riferimento sono diventati il no-restraint e la recovery, la motivazione, il consenso e la partecipazione della persona al trattamento (essenziali in tutti i casi ed ancor più per i disturbi della personalità, uso di sostanze) senza i quali la cura non è possibile.

Se la continuità tra salute e malattia è uno dei cardini del movimento riformatore, se la malattia è parte della salute il crearsi di una netta discontinuità tra salute e malattia, tra chi può dare il consenso e chi va obbligato, tra chi può lavorare e chi no, tra chi sulla base del funzionamento (ma anche in base a condizioni giuridiche ecc,) può partecipare o essere escluso mette a rischio la visione dell’inclusione come riferimento universale per tutte le persone.

Non va incrinato il principio dell’universalismo in favore di una cultura dell’individualismo (e non della soggettivazione) e della permanente instabilità in tutti gli ambiti ai quali le persone “debbono” adattarsi e se non vi riescono sono escluse, assistite se va bene o abbandonate a sé stesse, come vite di scarto. Il terzo escluso che rischia di diventare la maggioranza sconosciuta e deviante.

La riforma ha portato alla decisione di fare a meno di Ospedali Psichiatrici civili e giudiziari incentrando il sistema di cura sulla comunità; si sono affermati i diritti delle persone con disturbi mentali che, tuttavia sono ancora discriminati rispetto agli altri cittadini. Si è dimostrato che "l'impossibile è possibile": si può fare a meno degli OP, degli OPG e delle pratiche restraint e le persone con disturbi mentali possono vivere nella comunità.

Ma i contenitori, gli istituti, la coercizione, il restraint e la contenzione possono tornare in forma “pulita”, corretta, secondo parametri di accreditamento e linee guida.

Il tema dei diritti delle persone con disturbi mentali verrà fortemente subordinato al nuovo "patto sociale"? Magari con il sostegno di professionisti, familiari e opinione pubblica che non vuole "disturbanti"? Dalla psichiatria verrà preteso un ruolo custodiale che metta fine al dilemma cura-controllo? Una psichiatria subordinata alla magistratura, più impegnata nell'ordine pubblico che nelle terapie e nella protezione della società dai malati? Per il loro bene, s'intende! Per sollevare le famiglie... E che fare per chi usa sostanze, dopo quasi trent'anni di "guerra alla droga"? Con le carceri sovraffollate...

Preoccupano anche le disposizioni amministrative che privano la libertà le persone in assenza di reati ma in relazione alla loro condizione di migranti e domani… perché affette da disturbi mentali.

In un contesto culturale e sociale oscillante tra la richieste custodiali e quelle abbandoniche, operare per l'inclusione è molto difficile, specie a fronte di una riduzione dei diritti (al lavoro, minimo vitale, casa) e ad un impoverimento sia di mezzi e risorse umane in difficoltà per i limiti del sapere e delle possibilità tecniche a fronte di casi cronici, polipatologici, spesso abusatori di sostanze e resistenti ai trattamenti, violativi, di fronte ad una aumentata conflittualità familiare e al grande problema dei femminicidi per i quali serve un’azione preventiva di comunità.

Un sistema di comunità

1) Serve un’azione culturale e politica che sappia sostenere in ogni contesto una visione olistica che colga la rilevanza e l'interazione reciproca di fattori biologici, psicologici, sociali, culturali e ambientali. Gli approcci olistici sono fondamentali affinché la salute mentale sia una componente essenziale della salute e quindi competenza di tutti, in primis i medici e gli operatori sanitari e sociali ma riguarda l'intera comunità, politica inclusa. Questa dovrebbe operare a livelli diversi: nazionale (completare la riforma, modificando codice penale in relazione all’imputabilità e riformare le legge sulle droghe), regionale e locale tenendo conto della salute mentale in tutte le politiche e sviluppando “patti di comunità, sportelli per i progetti di vita.

2) Tutelare il mandato di cura. La psichiatria è una pratica di cura e ne vanno difese le condizioni, anche di fronte alla politica e alla magistratura. Va riconosciuto a tutti pienezza di diritti e doveri. La libertà, la responsabilità e la speranza sono terapeutiche, se indivisibili e sempre rispettate.

Tramite un protagonismo e l’alleanza di tutte le componenti, psichiatri, utenti, familiari e cittadini occorre spostare l’attenzione dai servizi ai determinanti sociali e agire insieme ad ogni persona nella comunità.

Occorre agire sui microdeterminati sociali della salute e rilanciare i "patti sociali", portare avanti le buone pratiche e coltivare i principi e le culture della 180 e va contrastata con forza la neoistituzionalizzazione o l'abbandono.

Rispetto alla giustizia non è utile una psichiatria meramente esecutiva, “dell’obbedienza giudiziaria” ma è essenziale preservare le aree di autonomia, seppure in un contesto dialogico. Una psichiatria che cura/si prende cura e non direttamente impegnata con finalità di pubblica sicurezza.

3) Affiancare e sostenere la rete dei servizi che, pur con diverse difficoltà, riesce a tenere un livello significativo di presidio del territorio e sono essenziali per la realizzazione dei nuovi percorsi per i pazienti autori di reato, evitando che le REMS tornino nell’ambito dell’orbita degli Istituti di Pena ma restino saldamente all’interno dei DSM. Un aumento della distanza tra REMS e sistema territoriale, renderà sempre più difficili le dimissioni.

Servono livelli diversi di coordinamento e governo: una Cabina di regia nazionale e la creazione dei Punti Unici Regionali e di Unità di Psichiatria Forense in ogni DSM che devono restare il riferimento del sistema.

Delineare un sistema unitario della salute mentale significa responsabilizzare tutte le persone, fare prevenzione, riducendo gli accessi in carcere, proteggere e sostenere le persone preservando le relazioni significative (anche tramite le nuove tecnologie) sapendo quanto è patogena la deprivazione affettiva, sessuale e sensoriale, migliorare l’assistenza psichiatrica.

Occorre un “doppio patto” della persona: da un lato con la psichiatria per la cura e dall’altro con la giustizia per quanto attiene la prevenzione di nuovi reati. Il mandato di cura va preservato vedendo in un’ottica unitaria gli interventi in tutti i contesti: Istituti di Pena, ATSM, REMS, sistema dei DSM, sistema del welfare. In questo quadro vanno visti sia la dotazione dei posti REMS sia l’eventuale differenziazione delle loro funzioni (osservazione-diagnosi, Terapeutico riabilitative) sia possibili sperimentazioni (residenze per la diagnosi e la “profilazione” ecc.) e per il graduale superamento delle REMS in favore di servizi di comunità, alloggi per la recovery, PTRI con budget di salute, Equipe mobili.

In ogni DSM servono investimenti per organizzare le Unità funzionali di Psichiatria Forense, gestire Cruscotti in grado di monitorare tutti i pazienti con misure giudiziarie. Questo può favorire anche la formazione di reti esperte (Residenze, Gruppi Appartamento e servizi di comunità per progetti con Budget di Salute).

Le Unità Funzionali di Psichiatria Forense possono essere il riferimento di tutti i soggetti chiamati a collaborare: magistrati, Amministrazione penitenziaria, periti,[13] avvocati, altri DSM, servizi sociali, Garanti, Prefetture, associazioni. Può fornire dati e promuovere la formazione congiunta e promuovere la “Seconda Opinione”, “valutazioni esperte di equipe”, perizie gruppali (comprendenti anche altre figure infermieri, psicologi e assistenti sociali, educatori e Tecnici della riabilitazione) supporto dei Medici legali e del Governo clinico. Dare libertà allo psichiatra mediante il riconoscimento del “privilegio terapeutico” e della possibilità di ammettere e dimettere dai luoghi di cura.

Sono importanti i Protocolli d’intesa con Magistratura e Forze dell’Ordine. L’offerta di cura va migliorata mediante moduli di trattamento per uomini violenti, prevedendo anche forme di accoglienza per autori di reato. Ovviamente vanno assicurati tutti i supporti e interventi per le vittime e giustizia riparativa.

Per questo servono consulenti giuridici e mediatori. Garantire una migliore difesa alle persone private della libertà e l’accesso ai diritti (mettere a disposizione consulenti legali, avvocati) e coinvolgere Amministratori di sostegno (legge 6/2004) e valorizzare i Fiduciari (legge 219/2017).[14]

Garanti delle persone private della libertà devono controllare anche l’attuazione della libertà vigilata (ad esempio la tendenza ad associarvi l’obbligo di permanenza in una residenza) e le sue proroghe, specie quando superano la durata della pena edittale massima. Di ogni proroga dovrebbe essere informato il Garante.

Sono da sperimentare nuove forme di cura specifiche per sex offender, uomini violenti, psicopatia.[15] Qualificare la rete residenziale, formando il personale e predisponendo percorsi adeguati.

Andare oltre le REMS per sviluppare programmi di cura di comunità (PTRI) con Budget di Salute ecc. ed aumentare le risorse di/nella comunità. Rendere stabili le esperienze di aiuto tra pari, di automutuoaiuto, di esperti per esperienza, anche nell’ambito dei percorsi giudiziari.

Questo vale anche per gli autori di reati gravi, dove la misura di comunità dovrà essere articolata in modo diverso, e questo sarebbe molto favorito dal superamento del “doppio binario”. Una visione più unitaria dei percorsi potrebbe essere la chiave per un’efficacia della cura e della misura giudiziaria.

Serve anche lo sviluppo di una psicopatologia evolutiva in grado di cogliere le traiettorie e poter operare in termini preventivi. E’ fondamentale costruire la relazione di cura, tenendo conto che può richiedere tempo e pazienza. In questo sono importanti approcci che misurino l’alleanza terapeutica[16] (le inevitabili rotture e riparazioni), gli strumenti valutativi e lo sviluppo di una testistica[17] passando dal concetto di pericolosità a quello di gestione dei fattori di rischio e protezione.

E’ fondamentale l’effettuazione di una valutazione della “trattabilità” cioè se in relazione al quadro clinico vi è un trattamento medico appropriato, verosimilmente idoneo a migliorare o prevenire il peggioramento del disturbo della persona. Questo va condiviso con la magistratura, forze dell’Ordine e servizi sociali. Ciò dovrebbe evitare il ricovero di un soggetto in psichiatria se nessun trattamento (che fosse farmacologico o di psicoterapia) risulta efficace e tale non è considerata tale la mera custodia del paziente e al contempo, che la permanenza della persona nel territorio finisca con l’essere di esclusiva competenza psichiatrica.

Spesso la trattabilità è condizionata dal prendersi cura dei fattori sociali, dei determinanti sociali rilevabili e modificabili sui quali è possibile costruire l’alleanza con il paziente ed ottenere la sua collaborazione.

Gli interventi di prevenzione di nuovi reati non spettano ai sanitari ma alle Forze dell’Ordine che valuteranno anche i bisogni di protezione di altre persone in particolare se vivono con il paziente e di coloro che gli forniscono assistenza e supporto valutando in modo allargato i rischi.

E’ tempo della responsabilità come riconoscimento reciproco e non del proscioglimento, dell’incapacità di intendere e volere, che annulla la persona facendola diventare un pericolo da temere e controllare.

Come scrive il Garante serve un avanzamento culturale nell’intendere la funzione della pena, vista non solo come espiazione, rieducazione e integrazione sociale ma anche come possibile riparazione e riconciliazione. Una visione che è utile ad affrontare i problemi nella loro complessità e unitarietà, visti nella loro co-esistenza nella loro relazione dialettica, contraddittoria, antitetica, ma capace di sintonie, conciliazioni in relazioni profondamente umane nate anche laddove sembra svanita ogni speranza.

La forza di questa impostazione sta nel cogliere i diversi punti critici in una luce nuova dove i problemi pure puntualmente citati, vengono visti alla luce di una fiducia di fondo nelle qualità umane di tutte le persone ancor prima della loro professionalità, etica, cultura e fede. L’incontro e le relazioni che cambiano se si ha la capacità e la pazienza del dialogo. Un cambiamento che riguarda anche la comunità possibile.

La polarizzazione del dibattito sulle REMS non evidenzia lo sforzo in atto per creare un sistema in grado di assicurare il diritto alla salute della persona a prescindere dalla posizione giuridica, e ciò interroga la giustizia, sulla funzione della misura giudiziaria, su come trova realizzazione e come garantisce diritti e qualità degli interventi. Quindi il tema non è tanto la dotazione dei posti REMS, quanto la dotazione di risorse e competenze dei territori, dove comunque, prima o poi torna la maggior parte delle persone.

Gli operatori della salute mentale, a fronte di un forte ricambio generazionale, impegnano le loro intelligenze, competenze e patrimonio etico e sono in grado con orgoglio di mediare tra le diverse istanze, di tenere il dialogo aperto, di infondere speranza e costruire percorsi di recovery. Occorre l’orgoglio e il coraggio della ricerca, della creatività e dell’innovazione. L’impresa sociale e Budget di salute sono fondamentali non solo per costruire rete e comunità ma anche per riflettere su salute malattia, norma e devianza. Quindi una possibile soggettivazione nella comunità ritrovata/ricucita.

I diritti

Secondo le Nazioni Unite “i diritti umani sono universali, indivisibili, interrelati, interdipendenti e si rafforzano reciprocamente”. Quindi la prima cura è la lotta alle ingiustizie, alle discriminazioni. Diviene terapeutico, in quanto dà valore e dignità alla persona, sostenere i diritti nell’ambito della responsabilità e di un’azione capacitante.[18] Il diritto all’autodeterminazione va affermato e va creata una cornice ancora più garantista per il TSO e non un allargamento sul modello inglese[19]. La diagnosi può essere stigmatizzante, specie se è solo categoriale, ed omette tutti gli altri elementi della sofferenza. Non dice nulla sulla condizione economica, familiare, sociale, lavorativa. Cioè sui determinanti sociali della salute: povertà, solitudine, violenze, abbandono in una società competitiva e talora rifiutante se non ostile e razzista. Non sono le persone ad essere un pericolo, ma come le accogliamo, ci prendiamo reciprocamente cura, come le storie diventano comuni, come la sofferenza non più solo privatizzata diviene, nella relazione, forza di cambiamento, ricchezza di un territorio. Persone come risorse essenziali e non come costo, spesa. Questo richiede strumenti nuovi.

Il richiamo alla politica e alla cultura è essenziale e deve essere multilivello: da quello nazionale, regionale e locale. Ogni comunità deve comprendere qual è lo stato della salute mentale, del benessere sociale, della sicurezza, tutti temi legati tra di loro. In altre parole deve essere in grado di comprendere come vivono concretamente le persone e le loro famiglie sempre più piccole, fragili e povere. Deve riflettere sul suo capitale sociale, costruirlo e aumentarlo. Serve riconoscere l’ imputabilità al malato mentale come nella proposta di legge 2939 presentata la scorsa legislatura dall’on. Magi.

I diritti delle persone con disturbi mentali autrici di reato

La valutazione dello stato mentale e della capacità di intendere e volere ha scarsi fondamenti scientifici. Se la persona non è imputabile viene a mancare il diritto al giudizio/processo

Nozione di pericolosità sociale per il disturbo mentale ha limitati fondamenti scientifici e scarsa capacità predittiva

La misura di sicurezza detentiva è considerata come detenzione. La durata, pur legata alla pena massima edittale per il reato commesso essa è prorogabile sine die come libertà vigilata, la cui violazione può prevedere una nuova misura detentiva.

Misura di sicurezza detentiva provvisoria, di fatto cautelare, è senza garanzie e tempi precisi il che rende pressoché impossibile la disposizione di un Piano Terapeutico Riabilitativi Individualizzati (PTRI)

La libertà vigilata non ha un termine preciso (e non è legata alla pena massima edittale)

Con la misura di sicurezza detentiva è impossibile accedere alle misure alternative ex legge 67/2014

Il pre-sofferto non viene conteggiato nella durata

Non vengono applicati gli sconti di pena (45 gg per ogni anno, in caso di buona condotta)

Nelle valutazioni periodiche viene giudicata la malattia o la terapia piuttosto che la condotta antigiuridica o meno della persona

Art 207 c.p. ” le misure di sicurezza non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose”: durata indeterminata

“Occorrerebbe convincersi, una volta per tutte, della necessità di superare la rigida e omologante impostazione carcerocentrica in favore di risposte sanzionatorie individualizzate che tengano conto dei bisogni, delle attitudini, delle caratteristiche personali del detenuto e dell’eventuale percorso di riabilitazione da lui intrapreso, al fine di evitare che la lunga durata della pena intramuraria ne comprometta definitivamente ed irrimediabilmente il reinserimento nella società. Una cosa è chiara: una pena che, in ragione di preminenti esigenze di tutela della collettività e di prevenzione generale (pure legittime), presenti connotati meramente afflittivi, restando del tutto indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del detenuto, così privandolo di qualsiasi prospettiva di liberazione futura e di reinserimento sociale, è contraria al principio della dignità umana.”[20]

Serve un sistema di cura e giudiziario di comunità e a questo mira il presente contributo che mi auguro possa essere arricchito e meglio precisato.

 


[1] Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma

[2] Papa Francesco La cultura della cura come percorso di pace. Discorso 17 dicembre 2020. https://www.famigliacristiana.it/articolo/il-testo-integrale-del-messaggio-del-papa-per-la-giornata-mondiale-della-pace-1-gennaio-2021.aspx

[3] Advancing racial and ethnic equity in health Editorial, Lancet 2022, 400; 2007

[4] A questo proposito ricordo la sentenza 99/2019 della Corte Costituzionale

[5] Repertorio Atti n. 188 del 30 novembre 2022 - Accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Governo, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano e gli Enti locali, sulla proposta del Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria di collaborazione interistituzionale inerente la gestione dei pazienti con misure di sicurezza, ai sensi dell’articolo 3-ter, decreto legge 2011, n.2111 convertito in legge 17 febbraio 2022, n.9, come modificato dal decreto legge 31 marzo 2014 n.81 e del DM 1 ottobre 2012 (Allegato A), recante “Requisiti strutturali, tecnologici, e organizzativi delle strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia”.

[6] Pur con la gestione sanitaria, il 9% circa del personale è costituito da vigilanti e molte REMS hanno recinzioni e dispositivi antiallontanamento. II principi di territorialità, numero chiuso, limitato numero di utenti, assenza di sovraffollamento sono comuni a tutte le REMS.

[7] Nota Vilella C., D’Andrea A., Paoletti G., Nicolò G. “l setting delle REMS tra sicurezza e riabilitazione: il punto di vista della psichiatria

La Magistratura, 2 nov. 2022” https://lamagistratura.it/penale-e-sorveglianza/il-setting-delle-rems-tra-sicurezza-e-riabilitazione-il-punto-di-vista-della-psichiatria/

[8] La Corte costituzionale nella sent. n. 349 del 1993 scrive: “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”.

[9] Secondo il Mental Health Act la somministrazione di psicofarmaci per periodi superiori a tre mesi richiede particolari procedure a garanzia del paziente. Perchè il trattamento possa proseguire, infatti, è necessario, alternativamente: - che il paziente abbia acconsentito al trattamento, e l'approved clinician o un medico a tal fine incaricato dalla Care Quality Commission abbia certificato la capacità del paziente di comprendere natura, scopo e probabili effetti del trattamento; oppure - (se il paziente è dissente) che un medico a tal fine incaricato dalla Care Quality Commission (che non ricopra il ruolo di responsible clinician del paziente) certifichi che il paziente non è capace di comprendere natura, scopo e probabili effetti del trattamento, oppure è capace di comprendere tutto ciò ma è comunque opportuno che il trattamento sia somministrato. In questo caso, prima di concludere la valutazione, il medico deve consultare due soggetti che siano professionalmente coinvolti nel trattamento del paziente, dei quali uno sia un infermiere e l'altro né medico né infermiere (in ogni caso non deve trattarsi del responsible clinician). Il trattamento può dunque essere proseguito anche contro l'espressa volontà di un paziente capace, purchè vi sia una “second opinion” da parte del medico (il Second Opinion Aappointed Doctor).

[10] Per rafforzare le funzioni dell’Amministratore di Sostegno Il Prof .Paolo Cendon ha proposto la riforma dell’art. 411 del c.c.

[11] In Inghilterra I trattamenti obbligatori per malati mentali sono circa 50 mila/anno mentre in Italia sono 7.000/anno. Le persone detenute nel Regno Unito sono

[12] Nazioni Unite Resolution adopted by the Human Rights Council on 19 June 2020

[13] Pellegrini P., G Paulillo, Pelizza L., Pellegrini C., Scarpa F. Cozza M., Barone R., Imperadore G., Castelletti L. Applicazione della legge 81/2014: alcune note di orientamento per i Periti Psichiatri, L’Altro, Anno XXIV, n. 1 Gennaio-Giugno 2021, 28-34

[14] Nel 2007 in Inghilterra è stato introdotto l'Independent Mental Health Advocate (IMHA), un avvocato per fornire un supporto alle categorie di pazienti più “vulnerabili” ricoverati coattivamente. Egli ha potere di accedere ai documenti medici relativi al paziente, a visitare i luoghi in cui questi si trova; può incontrare il paziente in privato. Può richiedere informazioni a tutti i professionisti coinvolti nella pianificazione e somministrazione del trattamento medico del paziente

[15] Dal 2005 in Inghilterra è attivo il Dangerous and Severe Personality Disorder Programme per la “gestione” di individui che presentino un alto rischio di commettere gravi reati di natura violenta e/o sessuale in conseguenza di un grave disturbo di personalità. Si tratta di un programma solo parzialmente applicato e che è stato oggetto di molte critiche, in relazione sia alla diagnosi di disturbo di personalità grave sia del suo rapporto con la pericolosità sociale.

[16] Lingiardi V. L'alleanza terapeutica. Teoria, clinica, ricerca, Cortina Ed., 2002

[17] Pelizza L, Paulillo G., Maestri D., Paraggio C., De Amicis I., Mammone E., Scarci M, Leuci E., Pupo S, Pellegrini P., Psychometric properties of the Parma Scale for the treatment evaluation of offenders with mental disorder: A new instrument for routine outcome monitoring in forensic psychiatric settings. International Journal of Law and Psychiatry, Volume 84, September–October 2022, 101828 https://doi.org/10.1016/J.IJLP.2022.101828

[18] Pietro Pellegrini, Giuseppina Paulillo, Cecilia Paraggio, Clara Pellegrini, Lorenzo Pelizza, Emanuela Leuci Persone con disturbi mentali in ambito penale. Diritti e doveri: molto resta da fare! L’Altro, Anno XXIV, n. 2 Luglio Dicembre 2021Gennaio-Giugno 2021, 25-30

[19] Il Mental Health Act (1983, 2007) prevede tre modalità di Compulsory Detention: a) for Assessment della durata di 28 giorni non rinnovabili, b) For Treatment (della durata di 6 mesi rinnovabili), c) For Assessment in case of Emergency della durata di 72 ore). Inoltre è previsto il Supervised Community Treatments.

[20] Privazione della libertà personale e finalità rieducativa della pena: per un ripensamento costituzionalmente orientato dell’ostatività di Debora De Carolis Il Chiasmo 12 ottobre 2020 https://www.treccani.it/magazine/chiasmo/diritto_e_societa/liberta/liberta_2_sssgl_privazione_della_liberta_personale.html