Le istituzioni della salute, le istituzioni della malattia

 

Giuseppe Guido Pullia

“..lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno….”

PABLO NERUDA

 

COMUNICAZIONE

Le istituzioni della salute, le istituzioni della malattia

Abstract: a partire dal tema della qualità della vita si impone la necessità di intervenire nelle contraddizioni uomo/natura e uomo/uomo quando rischiano di comprometterla. Ne derivano risposte che, facendosi istituzioni sanitarie, costituiscono strutture e saperi. E’ necessario non avere un approccio ingenuo di fronte alla medicina, sia quella tradizionale, sia quella che si richiama a pratiche e teorie “alternative”. Si rende indispensabile un approccio critico che non abbracci tout court la medicina “naturalistica” ma che non ricada in contrapposti dogmatismi ideologici facendo dipendere tutto ciò che accade esclusivamente dai perversi disegni del mercato. Senza assolutizzare mode e parole quali, ad esempio, la prevenzione, di cui si sottolineano alcune contraddizioni, è impellente il bisogno di dare risposte scientifiche e politiche adeguate al bisogno di stare bene. Poichè s’intende per salute il bisogno realizzato di benessere, di pienezza,di significato, si conclude definendo la malattia come evento che determina il fallimento (temporaneo o definitivo) di un progetto di vita.

Non è dato all’uomo sapere come, quando e dove la sua vita finirà. Hans-Georg Gadamer in “Dove si nasconde la salute” fa derivare da questa considerazione il bisogno di trasformare il mondo, richiamando il mito di Prometeo.

“Spensi all’uomo la vista della morte. […] Poi lo feci partecipe del fuoco” (Eschilo, Prometeo incatenato). Afferma Gadamer:“Secondo il racconto mitico Prometeo rubò il fuoco dal cielo, permettendo in tal modo all’uomo di lavorare con questo nuovo strumento. In Eschilo tuttavia il furto del fuoco viene menzionato solo come un evento secondario: Prometeo si gloria di essere il vero benefattore dell’umanità, svantaggiata da Zeus, in quanto ha concesso all’uomo l’immenso bene di vedersi sottratta la capacità di conoscere in anticipo la propria morte. In ciò consiste il vero dono. In precedenza gli uomini, in attesa della loro fine, erano vissuti, inattivi e tetri, dentro alle spelonche, come molti altri animali che vivono in caverne. Quando però furono privati della possibilità di conoscere l’ora della morte, sorse la speranza ed ebbe inizio il grande cammino dell’umanità verso la trasformazione del mondo in un ambiente abitabile”.L’impossibilità di cancellare dall’orizzonte della scienza medica il limite mortale, ma al tempo stesso lo sforzo della tecnica richiesto per fronteggiarlo, costituiscono il paradosso della medicina.

Tendiamo a considerare la salute e la malattia due fenomeni naturali di segno opposto: nella salute il corpo è verticale, eretto,attivo, vigile; nella malattia è orizzontale, inerte, passivo, dipendente.

E’ perfino ovvio ricordare che il bisogno di star bene  è connaturato all’essere umano, e in questo bisogno possiamo riscontrare, al di là delle definizioni che di questi concetti si danno, sia la necessità di liberarsi dalle malattie (dalla debolezza, dalla passività, dalla dipendenza) che quella di raggiungere il massimo benessere (energia, protagonismo, successo)possibile. La salute ha un carattere segreto, rimane nascosta perché non è preoccupazione di sé, né inghiottire medicine: è un essere insieme agli altri uomini, occupati attivamente e felicemente nei compiti particolari della vita nel “silenzio del corpo”. In definitiva mi azzardo a correlare a questo bisogno il desiderio incomprimibile di essere soggetti nel mondo, un bisogno, come dice Franca Ongaro Basaglia, di benessere, di pienezza, di significato (in Salute/malattia, Torino 1982, pag.10). E’ però nelle esperienze contrarie che viene alla luce ciò che è nascosto.

In altre parole, se quello della “qualità della vita” è veramente un tema originario dell’uomo,è importante sapere come potere e dovere “condurre” la propria esistenza nel modo migliore, anche sottomettendo la natura quando si impone un fattore di disturbo e di minaccia come la malattia.

A partire da tutto ciò, che abbiamo visto sin qui emergere a livello individuale, salute e malattia divengono problemi di competenza dell’organizzazione sociale, per i quali si sono strutturate nel tempo molte risposte, più o meno adeguate, attraverso strutture fisiche (ambulatori, ospedali…), saperi più o meno scientifici (dalla stregoneria alla medicina come la conosciamo oggi…), caste  e mercati ( dalle cliniche ai centri termali, alle palestre, ai centri benessere, all’industria turistica dei pellegrinaggi…).

Queste risposte si sono inevitabilmente istituzionalizzate, e ciò ha conferito loro un “potere autonomo”, che fa sì che si autoriproducano, acquistino consenso e si rafforzino al di là ed oltre la loro capacità di rispondere davvero ai bisogni da cui hanno tratto vita. Secondo Gehlen (A.Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo) le istituzioni sono configurazioni culturali che si organizzano come compensazione delle carenze di equipaggiamento biologico di quell’ “animale non ancora stabilizzato” che secondo Nietzsche è l’uomo (Frammenti postumi). Dallo “iato” tra bisogni e situazioni del loro soddisfacimento Gehlen desume quella struttura del padroneggiamento artificiale dell’esistenza, del capovolgimento e rielaborazione delle condizioni naturali, che va sotto il nome di “cultura”.

La consapevolezza/coscienza  da parte di noi cittadini delle opportunità inesplorate come degli attuali limiti di tali istituzioni, derivanti dal contesto storico, sociale e culturale nel quale sono immerse, va recuperata, per superare l’esproprio del nostro corpo e delle nostre vite e renderci più capaci di progettare “democraticamente” il mondo nel quale viviamo. “L’istituzionalizzazione della scienza che si trasforma in impresa va inserita nel più ampio contesto della vita economica e sociale in epoca industriale. Non solo la scienza si rivela un’attività imprenditoriale, ma anche tutti i processi lavorativi della vita moderna sono organizzati in modo aziendale.” (H.G.Gadamer op.cit.). In Italia il Servizio Sanitario Nazionale si declina nelle Aziende Sanitarie Locali.

Gadamer afferma: “tanto più le forme di organizzazione della vita vengono modellate razionalmente, tanto meno viene esercitata e addestrata nel singolo la facoltà di giudicare […] Quanto più efficacemente viene razionalizzato il campo di applicazione , tanto maggiormente è sospeso il reale esercizio della capacità di giudizio e quindi viene a mancare l’esperienza pratica in senso proprio”. Gadamer evidenzia il rischio della messa tra parentesi della soggettività e del senso critico del medico che aderisce pedissequamente ed ingenuamente, meccanicamente, ai protocolli derivati dalla Medicina Basata sulle Evidenze o EBM (fondata su trial clinici in doppio cieco: ne parleremo più tardi, a proposito dell’effetto placebo). Senza dar qui conto di alcune lampanti contraddizioni: si pensi al caso dell’Elettroshock, tutt’ora praticato nonostante l’impossibilità di realizzare condizioni “scientificamente” accettabili di valutazione della sua efficacia o ad aberrazioni quali protocolli per le contenzioni fisiche in psichiatria (pratica che evidentemente non può essere considerata “trattamento medico”)che non si pongono il problema di verificare come sia possibile che in alcuni (purtroppo solo alcuni) servizi psichiatrici tali pratiche di tortura o altre di sequestro di persona (porte chiuse) siano state superate o sempre state assenti. “Se solo l’esperto può giudicare l’esperto e se un eventuale insuccesso o un errore può essere valutato solo dagli specialisti […] un tale campo è divenuto, in un certo senso, autonomo. Il richiamo della scienza è inconfutabile.”(H.G.Gadamer, op.cit.).

Eppure già Platone si poneva il problema del potere e dell’autorità derivante dal “sapere medico” e, ricordato per queste considerazioni tra gli altri da Foucault e da Gadamer, stabiliva un parallelismo tra filosofia e medicina. Platone afferma che il medico, così come il filosofo consigliere del principe, ha bisogno della fiducia e deve limitare la sua autorità, considerando l’uomo nella situazione complessiva della sua vita e riflettendo sulle conseguenze dei suoi consigli, sapendosi ritirare al momento giusto, stando ben attento a non rendere il malato “dipendente” da sé, a non imporre regole di vita (“dieta”) che ostacolino il ristabilirsi di un equilibrio.

Ma oggi, schematizzando, si può affermare che, nel senso comune, perché la salute possa essere un obiettivo da perseguire, la malattia deve essere considerata un “oggetto” da sequestrare ed annullare ricorrendo a delle tecniche precise

Storicamente – ne è testimonianza esplicita la resistenza statunitense a realizzare un intervento pubblico nella sanità – nella società capitalistica si è teso a negare , o a riconoscerli con colpevoli ritardi, gli intrecci profondi tra la realtà sociale e la sofferenza personale, insistendo sugli interventi tecnici riparatori a livello individuale fino a giungere ad una sorta di colpevolizzazione di comportamenti individuali. Credo non solo che nell’inconscio collettivo si sia portati a considerare il tossicodipendente il primo se non il solo responsabile dei suoi mali, ma anche che a questo modello si tenda a ricondurre tutto il comportamento umano: chi mangia troppo, non fa sport, si trascura, non tiene conto dei “consigli dell’esperto” soprattutto se sa di essere esposto a qualche “fattore di rischio”, e magari non sia così previdente da farsi un’assicurazione di quelle a prova di bomba, si arrangi! Questo è il modello “liberista” nell’ambito della salute/malattia, che storicamente ha costituito quell’immaginario che, il più delle volte inconsapevole dei condizionamenti a cui è sottoposto dalle corporazioni mediche, farmaceutiche, assicurative, i cui interessi sono evidenti, ostacola con troppo successo il tentativo di Obama di realizzare un servizio sanitario nazionale anche nei ricchi USA.

Ritornando, dopo questa parentesi, al costituirsi della medicina moderna, si giunge a Cartesio. Il corpo e la vita sono divenute “oggetto” di conoscenza scientifica, di indagini “obiettive”, soltanto quando si è imposta una frattura tra un corpo sottoposto alle leggi naturali ed un’anima che si muove in una dimensione del tutto separata. Come afferma Franca Ongaro, (ibidem, pag. 156) “oggetto di conoscenza dell’indagine scientifica non è, dunque, l’uomo nella sua complessità somatopsichica e insieme sociale, ma un corpo privato della presenza della soggettività e di ogni legame con il mondo di cui fa parte”. Nello strutturarsi dell’intervento medico è elemento fondamentale la distanza tra chi indaga e l’oggetto dell’indagine, la scarto di potere tra chi sa e chi viene studiato. “Lo svelamento della malattia va di pari passo con la sua massificazione e ostensione in quella metafora oggettiva del corpo umano che è l’ospedale, i cui reparti rimandano ai vari distretti corporei e alle loro funzioni specifiche.” (H.G.Gadamer, op. cit. ).

E a partire da ciò si sono costituite la ricerca e l’insegnamento, che organizzano il sapere medico e l’assistenza sanitaria, che organizza la malattia. Il medico si occuperà sempre più di una parte del corpo e di una malattia, rinviando al legislatore il compito di occuparsi delle condizioni ottimali di vita dell’uomo e quindi della vera prevenzione (misure riguardanti l’alimentazione, il rifornimento idrico, le fognature, l’igiene scolastica, l’organizzazione del lavoro, l’inquinamento), di ciò che costituisce la vera ricchezza di un popolo.

L’ospedale come luogo terapeutico e del sapere medico nasce dall’ospizio o lazzaretto come luogo di carità; i poveri, i vagabondi, vengono “organizzati” da una corporazione medica che si costituisce nel nome del mercato, del prestigio, del segreto per i borghesi classificando le malattie dei miseri e “dimenticando” che le malattie di questi ultimi nascono in ambienti igienicamente inadeguati, che l’alimentazione è scarsa, ecc. La miseria viene “medicalizzata”. Ciò avverrà per molto tempo. Il caso della pellagra è assolutamente emblematico : Lombroso, che sostiene che deriva da tossine del mais guasto è ascoltato dal mondo politico nonostante le evidenze che ne riscontrano la causa in una grave carenza alimentare. Lo stesso accadrà per il beri beri, che in un’epoca in cui la causalità batterica è in auge, non viene riconosciuto come malattia da carenza di vitamina B1.

La medicina del XIX e degli inizi del XX secolo si vede attribuire successi il cui raggiungimento è invece dovuto a modificazioni delle condizioni igienico/sanitarie, dell’alimentazione e del modo di vita. (F. Basaglia Ongaro, ibidem pagg. 190/197). Sono ricordati, come esempi, il declino della tubercolosi, avvenuto molto prima dell’individuazione del bacillo di Koch e della chemioterapia adatta, la riduzione della mortalità per polmonite, avvenuta molto prima del miracolo farmacologico, la riduzione della mortalità infantile per la caduta delle morti per gastroenteriti per la migliore alimentazione, la sterilizzazione del latte e il maggior controllo sul cibo… Franca Basaglia Ongaro dichiara in maniera apodittica che “la medicina non può essere preventiva perchè se la malattia si produce altrove, fuori del suo spazio di intervento, e se la natura del suo intervento deve mantenersi separata dalla natura di ciò che produce la malattia, la medicina non può che portare preventivamente la propria logica oggettivante e destorificante nel terreno sociale, dove maturano e si producono i fenomeni.” (ibidem, pag. 214).

A queste affermazioni, che condivido, aggiungerei però anche un altro elemento, non credo a tutt’oggi superato: esiste una medicina ed esistono delle tecniche “di classe”: il caso della lobotomia prefrontale è emblematico. Il titolare della cattedra di Neurologia e Psichiatria di Padova nel 1970 affermava, infatti, che tale trattamento, che riteneva indicato per un operaio affetto da una grave forma di nevrosi ossessiva, non sarebbe stato opportuno se il paziente fosse stato un artista o un intellettuale, per l’“effetto collaterale”rappresentato dalla perdita di “creatività”.

 

A nostra volta ricordiamo la storia del dott. Semmelweis (nato a Buda nel 1818-morto nel 1865). Fu un medico ungherese oggi conosciuto come il salvatore delle madri che, assistente nel 1846 del dott. Klein presso la clinica ostetrica dell’Allgemeines Krankenhaus, il più moderno ospedale europeo inaugurato da Francesco Giuseppe nel 1784, constatò non solo che vi era un elevato numero di decessi di partorienti per febbre puerperale, ma che tale mortalità era 10 volte inferiore nel secondo padiglione, usato solamente per il tirocinio delle ostetriche. Semmelweis cercò di indagare sulle cause di tale mortalità ed ebbe l’intuizione giusta quando riscontrò sul cadavere di un collega ed amico morto a seguito di una breve malattia lesioni simili a quelle che si riscontravano nelle donne morte per febbre puerperale. L’amico si era ferito nel corso di un’autopsia. Ne dedusse che la febbre puerperale era una malattia trasferita da un corpo ad un altro dai medici e dagli studenti che praticavano autopsie sulle donne decedute prima di recarsi in corsia. Dispose che tutti coloro che entravano nella clinica dovessero disinfettarsi le mani con cloruro di calcio e che tutte le partorienti cambiassero le lenzuola sporche con altre pulite. Nel 1846 le morti nella clinica erano state l’11%; nel 1847, dopo l’introduzione del lavaggio delle mani, scesero al 5% e l’anno successivo l’1%, la stessa percentuale riscontrata nel secondo padiglione.

Lungi dall’ottenere riconoscimenti, Semmelweis fu fortemente osteggiato dal mondo medico, che rifiutava di ammettere che i medici stessi potessero essere degli “untori”; tra i suoi più accaniti oppositori fu Rudolf Virchow, il padre dell’istologia e della patologia generale moderna. Da Vienna il giovane medico dovette tornare a Pest, dove continuò a mettere in pratica le severe regole dell’asepsi. L’ostilità dei colleghi fu una delle cause di una reazione depressiva che lo portò ad un’abulia e apatia che non furono tra le ultime cause della morte, avvenuta nel 1865. Solo i lavori di Pasteur del 1879 avrebbero riabilitato, consentendo un riconoscimento postumo del medico ungherese, le intuizioni di Semmelweis.

 

Ritorniamo all’oggi. La medicina, costretta a dare comunque una risposta alla sofferenza dell’uomo senza incidere su ciò che la produce è costretta ad inventare sempre nuove tecniche per riparare i danni, col rischio di produrre nuove malattie (es. la legionellosi o le infezioni ospedaliere o gli stati confusionali dell’anziano in ambiente istituzionale non familiare). Se la salute diviene un valore astratto sempre raggiungibile non si sarà più disposti ad accettare il minimo disagio senza cercare un rimedio. Ma i rimedi possono essere peggiori del male.

 

E’ oggi noto a ogni epidemiologo che sono molto rare le malattie prodotte da una sola causa ( ad eziologia monofattoriale): una ferita provocata da un trauma, una dose elevata di veleno. Quasi sempre la malattia è conseguenza di un’interazione di fattori diversi. Anche le malattie infettive non sono dovute alla sola causa rappresentata dal batterio o dal virus, tant’è vero che non tutti si ammalano allo stesso modo se sottoposti agli stessi agenti patogeni. Vi sono fattori (i determinanti di malattia) la cui alterazione induce un cambiamento nella frequenza e nei caratteri di una malattia.

Tali fattori possono essere, nel caso delle malattie infettive, schematicamente:

-.interni all’ospite o endogeni (legati alle caratteristiche dell’ospite dell’agente patogeno: caratteristiche etniche, morfologiche, psico-neuro-endocrino-immunitarie, sesso, età)

- dipendenti dall’agente (o determinante “primario”, cioè necessario ma non sufficiente) (tipo, numero, virulenza, tropismo)

- esterni all’ospite o esogeni (clima, microclima, alimentazione, igiene).

Quindi in medicina il rapporto causa/effetto va visto nella stragrande maggioranza dei casi dando alla causa la connotazione di fattore che incrementa la probabilità di un evento.

Il termine malattia della lingua italiana ingloba i due diversi aspetti che in inglese troviamo espressi dai termini disease (disfunzione dell’organismo rilevabile oggettivamente) ed illness (percezione soggettiva di malattia). Valorizzare contemporaneamente i due aspetti di cui sopra come inevitabilmente intrecciati ci consente di mettere in dubbio l’abuso “scientista” dell’EBM che si fonda su un credo neopositivista oggi riconosciuto epistemologicamente debole ed inadeguato a render conto della realtà. Il rischio di una indeterminatezza “fuzzy” non deve infatti impedirci di riconoscere almeno tre vantaggi di un approccio attento ad entrambi i termini costituenti la duplice definizione di malattia, che in quanto tale riconosce l’impossibilità di derivare tout court asserzioni prescrittive da premesse descrittive. (M. Lovatti, 2003)

  1. la possibilità di includere nel concetto di malattia componenti che derivano dal contesto culturale di una data società o epoca ( si vedano gli esempi dell’isteria o dei disturbi del comportamento alimentare)
  2. la rivalutazione dei vissuti e delle percezioni soggettive per la scelta delle strategie terapeutiche e per una riconsiderazione delle stesse convinzioni eziologiche (senza un “dubbio metodico” nei confronti di un’EBM costruita su trial clinici randomizzati a doppio cieco che ne costituiscono la base, ma che sono descritti da riviste scientifiche pubblicate con molte risorse derivanti dalla pubblicità dell’industria farmaceutica, non sarebbe possibile riconsiderare le cause prime di molte sofferenze)
  3. la necessità di contrastare visioni “riduzioniste” della malattia (se la malattia è vista come pura disfunzione biologica la ricerca e le risorse sanitarie si orienteranno quasi esclusivamente sulla terapia farmacologica e chirurgica, dimenticando ambiente e prevenzione)

Parlando di malattia inoltre non si dovrà dimenticare che non per tutti i pazienti il discostarsi dai valori dichiarati “fisiologici” è segno di patologia (ricordiamo le popolazioni con elevata colesterolemia senza segni di ateromatosi per la presenza di un particolare enzima che impedisce il deposito di lipidi sulle pareti arteriose), e addirittura che alcune patologie in determinati ambienti sono “protettive” da noxe ambientali (è il caso dell’anemia mediterranea a fronte della malaria). Né va dimenticato che se siamo abituati a pensare in modo deterministico (post hoc ergo propter hoc) oggi l’organismo va pensato in maniera complessa, per cui ogni individuo è portatore di un circuito psico-neuro-endocrino-immunitario in perpetua correlazione con l’ambiente e la qualità della vita individuale va anch’essa pensata in maniera complessa: modificare un comportamento in maniera “meccanica” senza conoscere chi ha assunto tale comportamento (e perché) può provocare danni consistenti (curare soltanto i sintomi di una depressione del tono dell’umore può facilitare il passaggio all’atto e trasformare un’ideazione autolesiva in efficace proposito suicidario; “cancellare” farmacologicamente un delirio può voler dire annullare il senso di un’intera esistenza).

 

Al centro della “malattia” intesa in senso meccanico ed “ontologico” ritroviamo il bisogno da parte dei medici di ricorrere ad una nosografia, cioè ad una classificazione. Ma bisognerebbe ricordare sempre che la malattia è tutti gli effetti un concetto non soltanto puramente descrittivo, ma anche normativo. “Le classificazioni sono intrise di valori e di riferimenti politici” (Vìneis, op. cit.), c’è una “politica delle infrastrutture classificative” presente in tutti i manuali di riferimento (ICD). Si pensi all’omosessualità, scomparsa dai disturbi psichiatrici più per la pressione culturale e politica che ha influenzato la casta medica che per altri motivi, oppure alla distinzione tra aborti legali ed illegali o alla “senilità senza menzione di psicosi” o a forme di “dipendenza” quale quella da giochi elettronici o lo “shopping compulsivo” o l’iperattività sessuale compulsiva.

Oppure si pensi che la American Obesity Association (AOA), un’associazione apparentemente no profit, è riuscita con attività di lobbying a far includere nel 2004 l’”obesità” tra le malattie conferendo ai trattamenti contro l’obesità lo statuto di farmaci prescrivibili gratuitamente entro gli schemi Medicare e Medicaid. Ebbene, l’AOA è un cartello di ditte che operano nel campo dei trattamenti per dimagrire. Ma l’obesità è innanzitutto

  • l’effetto di una maggiore disponibilità di cibo ad alto contenuto calorico (le porzioni sono cresciute in maniera impressionante: la dose di Coca Cola degli anni ’50 – 79 cal. – nel 2000 è triplicata raggiungendo le 194 cal., il burger king della Mc Donald’s è più grande di un terzo passando da 202 a 310 cal., il “bicchiere” di pop corn è cresciuto di 7 volte passando da 174 a 1700 cal, le patatine McDonald’s hanno porzioni passate da 210 a 610 cal.
  • L’effetto dell’alto costo del cibo più salutare
  • L’effetto del calo di attività fisica delle comunità più disagiate (soprattutto nere ed ispaniche)

Quindi l’obesità è da considerarsi una delle conseguenze di un intreccio perverso tra disponibilità enorme di cibo a basso prezzo – è interessante, ma qui non lo possiamo fare, indagare su quanto cibo viene gettato via nei paesi “sviluppati”- e miseria.

 

L’attuale paradigma dell’ereditabilità genetica ci riporta a precedenti paradigmi monocausali. Questo paradigma è sovradeterminato dalla tecnologia che consente di prendere un campione di sangue a 5/10mila persone nell’arco di pochi mesi e tipizzarne le varianti geniche. Ciò ha consentito scoperte importanti, ma per le malattie croniche, i tumori e le malattie cardiovascolari si trova poco, nonostante le attese. E si commettono gravi errori. Ad es. Richard J.Herrnstein e Charles Murray nel 1994 sostenevano che i neri hanno un basso quoziente d’intelligenza (in La curva di Bell) basandosi sulle professioni esercitate, su studi su gemelli, ecc. Ma osservando i gemelli (che di solito fanno più o meno la stessa vita), o tagliando fuori la componente ambientale (ad es. non tenendo conto delle difficoltà della famiglia di origine o personali, legate ad es. alla stessa adozione, se uno dei due gemelli è stato adottato) emerge solo la componente genetica. Jeffrey Rose diceva “se tutti fumassimo 20 sigarette al giorno il tumore al polmone sarebbe una malattia genetica, perché non ci sarebbe sufficiente variazione nell’esposizione al fattore causale”.

Le cose sono complicate. Prendiamo l’esempio dell’influenza suina. La precedente esperienza dell’aviaria, quella di un virus (H5N1) altamente letale ma poco contagioso, ha fatto temere che la suina (da virus H1N1, molto contagioso), potesse mutare e diventare letale. Ciò non è fortunatamente accaduto e le grandi scorte di vaccino sono rimaste inutilizzate non solo per un perverso gioco del mercato del farmaco ma anche per una genuina difficoltà predittiva. Come vedremo anche per altre problematiche la medicina oggi si trova di fronte a scelte difficili a fronte dei rischi di malattia: quante persone trattare preventivamente perché una persona non si ammali? E il gioco quando vale la candela? Tutti i soggetti trattati sono esposti comunque ai rischi connessi agli effetti collaterali dei farmaci (talora non ben conosciuti – e ciò vale in particolare per i nuovi farmaci, dei cui rischi ci si avvede a distanza di anni dalla loro messa in commercio- si veda l’esempio degli antipsicotici di nuova generazione o dei nuovi antidepressivi). Quanti di questi si ammalerebbero? E quanto costa usare farmaci per tante persone? Non varrebbe la pena incidere su altri versanti (educazione, igiene, comunicazione, ambiente di vita e di lavoro, condizioni economiche dei ceti più deboli, condizioni relazionali ed intersoggettive diverse e non discriminanti)?

Scriveva tra l’altro Maccacaro nell’ottobre 1972 in una (allora) celebre lettera al presidente dell’ordine dei medici di Milano: “la lotta alla malattia infettiva ….(espressione della contraddizione uomo-natura”)  ne ha determinato la  recessione scoprendo… l’emergenza della malattia degenerativa e sostanzialmente antropogena espressione della “contraddizione uomo-uomo”….. Occorre affermare l’”esistenza” della malattia, intorno alla quale ruota l’insegnamento medico. Se la malattia “esiste” il malato è colui che una o più malattie hanno colpito ed il sano è definito negativamente: come colui che non ha nessuna malattia. Curare vorrà allora dire, diagnosticamene, ridurre il malato alla sua malattia, la malattia alla sua localizzazione organica, l’organo malato al danno obiettivabile, il danno a un segno e il segno alla sua misura. Poi ripercorrere, terapeuticamente, il percorso inverso: la correzione del segno mistificata come eliminazione del danno, il silenzio dell’organo come sconfitta della malattia, l’obliterazione della malattia come restituzione della salute.”

E’ proprio così. Ma allora come affrontare una malattia come la malattia mentale grave, che non dà segni “obiettivabili”, a volte non sembrerebbe far soffrire (tanto che era abituale dichiarare che il malato grave per definizione non ha consapevolezza di malattia?). Non “esiste”? Ma è quello che afferma l’antipsichiatria di T.Szasz in un contesto liberista, e a differenza della psichiatria basagliana di fatto non può che derivare da questa affermazione che non ci si prende cura se non del malato che “sa” di esserlo e si presenta spontaneamente dallo specialista.

Oggi una (forse la) questione centrale della medicina si colloca all’interno del crocevia tra individuo, burocrazia, democrazia (Vìneis, Satolli, I due dogmi ). Si pensi alla vaccinazione obbligatoria. Essa risponde ad una finalità di utilità pubblica non solo proteggendo l’individuo vaccinato, ma riducendo la trasmissibilità dell’infezione attraverso la herd immunity, l’ “immunità del gregge”: gli individui immunizzati, non più infettivi, contribuiscono a ridurre la presenza della malattia nella popolazione. Ma chi fa un calcolo personale sul rapporto rischio/beneficio percepisce l’obbligatorietà della vaccinazione come un’indebita intrusione. Recentemente sul Lancet Granich per combattere l’AIDSha proposto di proporre il test annuale a tutti trattando subito tutti i positivi: il trattamento immediato è contro l’interesse del singolo – non migliora la prognosi ma dà tossicità e resistenza – ma interromperebbe la trasmissione del virus, nell’interesse della collettività.

“Il segreto meglio custodito dai medici” è oggi, come afferma la rivista americana Time (Vìneis, op.cit.) che oggi la medicina che curava è trascolorata in medicina “preventiva” su base statistica, ma ciò nasconde il number needed to treat (NNT: numero necessario da trattare), cioè che il medico deve trattare un numero elevato di soggetti (50-100 e più, fino a 500) per ottenere benefici in uno solo, senza sapere quale. Ed ovviamente il NNT è tanto più elevato quanto più bassa è la soglia di malattia. Le più recenti revisioni delle soglie della colesterolemia e della pressione arteriosa comportano l’invito a trattare sempre più persone senza sapere a chi il trattamento potrà giovare e non ricordando che tutti i soggetti trattati riceveranno gli effetti negativi (non solo dovuti ai farmaci ma anche all’immagine di sé) del trattamento. E’ difficile non pensare a condizionamenti economici. La concettualizzazione della semplice iperglicemia come malattia e non come fattore di rischio di vere malattie ha creato una quantità di pre-malati ai quali si prescrive un trattamento con farmaci spesso di nuova produzione e non sufficientemente sperimentati sull’uomo. In psichiatria si sono effettuate ricerche recenti, anche in Italia, sulla depressione sotto-soglia, persone in cui alcuni test (sulla cui validità sarebbe opportuno ricominciare a riflettere) danno valori “ai limiti”, a cui il è “suggerita” una consultazione da uno psicologo (ce ne sono tanti in cerca di clienti!). Si assiste ad un “mercato delle malattie” (disease mongering) in cui si assiste a delle vere e proprie “promozioni” delle malattie in cui il prefisso pre ricorre spesso (pre-venzione, diagnosi pre-coce, medicina pre-dittiva, riconoscimento di pre-malattie, ecc.) e gli effetti bio-politici sono pesanti.(Vìneis, op cit.). Più la soglia si abbassa e cresce il NNT minore è la probabilità di ricevere benefici da un intervento medico mentre il rischio di possibili danni resta invariato perché la tossicità dei medicinali e la pericolosità di altri trattamenti sono indipendenti dalla soglia di malattia. E ciò vale non solo per le terapie, ma anche per alcune indagini: è stato calcolato in Gran Bretagna, prendendo in esame dati forniti da opuscoli informativi che, giustamente, invitavano le donne a partecipare a screening mammografici, che i dati riportati avrebbero potuto anche essere letti così: “ogni 2000 donne che fanno la mammografia regolarmente per 10 anni, una eviterà di morire di tumore al seno. Però 10 donne sane saranno considerate malate di tumore e verranno inutilmente operate e spesso riceveranno anche una radio o una chemioterapia”.

Guardatevi dai medici che non hanno capacità di valutazione critica delle indagini strumentali e di laboratorio!!

In realtà la nozione di malattia o di terapia “dipende dall’idea che si ha della natura umana” (H.Wulff, S.A.Pedersen, R.Rosenberg, Filosofia della medicina trad it. Milano 1995). Gli AA. Fanno l’esempio dell’Angst (ansia, angoscia) : “se un medico crede che sia un aspetto ineludibile della condizione umana, non prescriverà immediatamente un tranquillante ogni volta che verrà interpellato da un paziente ansioso”.

“Alcuni identificano malattia e sofferenza, ma i due concetti non sono identici. Il paziente in stato di incoscienza e il malato di tumore privo di sintomi sono ritenuti e sono biologicamente malati, mentre la donna che soffre per i dolori del parto è considerata sana” (Wulff et alii, op cit) Resta il fatto che “il malato è l’essere umano, non l’organismo biologico” [….] I clinici devono tener conto anche dell’esperienza di dolore dei loro pazienti, della loro sofferenza, del loro rispetto di sé e dei loro obiettivi, e devono imparare a trattare questi fenomeni non biologici”.

 

Un’ulteriore complicazione. Per definizione, sia come medicamento che come veleno, il farmaco dovrebbe funzionare all’insaputa del paziente a cui viene somministrato. Ma cosa accade se ad un paziente si somministra una sostanza inattiva dicendogli che è un farmaco? Ebbene, tale sostanza può essere efficace (effetto placebo). Il placebo è conosciuto da molto tempo (è definito come “medicina usata più per piacere che per giovare al malato” dal Quincey’s Lexicon del 1787). Ma le cose sono assai più complicate. Numerosi studi dimostrano che un placebo può modificare i parametri biologici di un organismo, tanto che la EBM dichiara efficace un farmaco sperimentato in un trial in “doppio cieco” solo a determinate condizioni che qui riportiamo.

La sperimentazione in “doppio cieco” (double blind control), la sola considerata davvero “scientifica”, tanto da ammettere l’immissione nel mercato di un nuovo farmaco da considerarsi indubbiamente efficace che chiameremo X, consiste schematicamente in ciò:

lo sperimentatore suddivide il gruppo dei soggetti su cui conduce la sperimentazione come segue:

  1. gruppo di soggetti a cui non si somministra alcun trattamento (gruppo di controllo)
  2. gruppo di pazienti a cui si somministra il farmaco X
  3. gruppo di pazienti a cui si somministra un placebo, cioè un prodotto inerte identico nell’aspetto al farmaco X, che chiameremo Y.

Condizione per una conduzione corretta della sperimentazione è che né i pazienti né lo sperimentatore sappiano rispettivamente se stanno assumendo e somministrando X o Y.

Ebbene il terzo gruppo di pazienti, quello a cui si somministra il placebo, presenta un miglioramento rispetto al gruppo di controllo che si situa attorno al 30 e può arrivare al 40%! E’ chiaro quindi che un nuovo farmaco può dirsi efficace soltanto se il miglioramento desiderato è raggiunto non da una percentuale di soggetti superiore allo 0% del gruppo di controllo, ma piuttosto da un numero di pazienti nettamente superiore a quello riferito ai soggetti trattati con placebo. Ma se esiste un effetto placebo dovrà esistere – ed effettivamente è così - anche un effetto nocebo, tale per cui una sostanza inerte produrrà effetti sgradevoli ed indesiderati. Uno studio del 1983 (Fielding, World Journal of Surgery) riferisce di un gruppo di pazienti con carcinoma dello stomaco a cui era stata somministrata solo una soluzione fisiologica al posto di un farmaco specifico che, convinti di essere sottoposti ad una chemioterapia, presentarono in un terzo dei casi una vistosa caduta dei capelli. (Qui non commento il valore etico di un mancato trattamento in soggetti che evidentemente ne abbisognavano ed erano convinti di effettuarlo).

Un caso americano del 1952 anticipa il famoso e clamoroso caso della “cura Di Bella” in Italia. Un paziente, il sig. Wright, affetto da un linfoma maligno molto avanzato, che non aveva nessuna voglia di morire, era fermamente intenzionato a provare una medicina di cui aveva sentito parlare, il Krebiozen, (creatina monoidrato) che già l’anno prima era risultato farmacologicamente privo di efficacia ma a cui si erano attribuite “guarigioni miracolose”. Il medico curante gli iniettò il farmaco il venerdì sera convinto di trovare il paziente morto al lunedì. Invece il sig. Wright conversava amabilmente in corridoio con gli altri ricoverati. I sintomi regredirono completamente in 10 giorni e il paziente fu dimesso con diagnosi di “remissione completa” Ma sulla stampa cominciarono ad apparire i servizi sull’inefficacia del Krebiozen e Wright fu tra i primi a leggerli…Nel giro di un mese si ripresentò in ospedale con i classici segni di una ricaduta. Il medico disse al sig. Wright che l’avrebbe sottoposto ad un trattamento sperimentale con un nuovo derivato del Krebiozen, rinforzato e più potente. Aspettò alcuni giorni facendo sì che il paziente rimanesse in ansiosa attesa e gli somministrò un placebo. Le masse linfonodali regredirono ed un versamento pleurico scomparve; il sig. Wright potè essere dimesso e godette di ottima salute per i mesi successivi. A poca distanza da quando l’American Cancer Association ufficializzò i dati che dimostravano la totale inefficacia del Krebiozen come anticancro il sig. Wright ricomparve in ospedale con il corpo disseminato di tumefazioni dicendo al medico che “la sua fede era perduta, l’ultima speranza svanita”. Morì due giorni dopo.

A parziale spiegazione “psicobiologica” dell’effetto placebo ci viene incontro uno studio del 1978 (Levine, The Lancet) che sottopose a sperimentazione un gruppo di pazienti con forte mal di denti, tutti convinti di assumere un antidolorifico efficace. Ad un primo gruppo si somministrò un placebo, ottenendo una significativa riduzione del dolore, e ad un secondo assieme al placebo il Naloxone, un antagonista delle endorfine. Nel secondo gruppo di pazienti l’effetto placebo risultò assai minore. Ma le endorfine, che studi successivi dimostrarono effettivamente intervenire in questo tipo di effetto, non intervengono affatto nell’analgesia da ipnosi e quindi la suggestione non spiega ancora tutto il fenomeno.

Alla luce di quanto sin qui detto le cosiddette guarigioni impossibili perdono la loro caratteristica sacra e, piuttosto che miracolose, dovremo accontentarci di considerarle a tutt’oggi inspiegate. Ricordo che un importante “barone” universitario del mio tempo, di grande cultura, interpellato a proposito delle “guarigioni” di Lourdes o di altri luoghi sacri, dichiarava il suo scetticismo “fino a quando non mi porteranno un amputato al quale sia ricresciuta una gamba” riconoscendo contemporaneamente “i limiti di una “disciplina scientifica” in cui ciò che si sa è molto meno di ciò che non si sa” ed aggiungeva:“speriamo solo per ora”.

Il problema di fondo delle cosiddette medicine alternative è che non essendo quasi mai sottoposte a questo tipo di sperimentazione, sulla loro efficacia o inefficacia abbiamo soltanto descrizioni aneddotiche e nella stragrande maggioranza dei casi sembra difficile attribuire loro un valore terapeutico superiore a quello del placebo.

Non dobbiamo dimenticare poi che molti prodotti “naturali” contengono principi farmacologicamente attivi e talora molto pericolosi. Ci sono, ad esempio, i funghi velenosi o la digitale! Ma ricordo qui che prodotti di erboristeria consigliati per incrementare le difese immunitarie o regolare il ciclo mestruale o dimagrire come ad es. l’acido aristolochico contenuto nell’aristolochia hanno causato vere e proprie epidemie di carcinoma uroteliale o che muffe presenti in frutta secca, mais, riso, ecc. (prodotti consigliati ad es. ai celiaci) possono contenere una tossina (l’aflatossina) - di cui recentemente la UE ha innalzato la soglia consentita!!che causa decine di migliaia di casi di cancro del fegato all’anno!! O si pensi semplicemente alla liquirizia che in alte dosi, per il suo contenuto in glicirricina, può causare un incremento della pressione arteriosa, o all’erba di S. Giovanni (iperico) usata per la depressione da lieve a moderata ma in realtà con effetti collaterali e precauzioni da seguire non dissimili a quelle che si devono attuare con gli antidepressivi più in uso, gli inibitori del reuptake della serotonina oSSRI.

 

Ritorniamo a parlare di salute.

Oggi si assiste ad un impressionante allungamento della speranza di vita nei paesi “sviluppati”. In Francia si parla di un trimestre in più all’anno!! (Lucien Sève, 2010).Si è sempre più consapevoli che la questione che si impone non è tanto il vivere più a lungo, quanto farlo nel migliore dei modi, cioè invecchiare bene. Dobbiamo constatare che tale problema viene impostato il più delle volte sul piano puramente individuale che vede, sullo sfondo, la presa di coscienza di un inesorabile declino a cui si oppongono “ricette” di tenore medico-psicologico. Solo a titolo esemplificativo la rivista Psychologies (Parigi, ottobre 2009, pagg. 68-89) sotto il titolo “Invecchiare bene, lo si impara”, propone “sei punti”:

1.      intervenire sul proprio corpo (mangiare meglio, fare esercizio fisico, niente fumo…)

2.      curare l’aspetto (tecniche “dolci” anti-età, dal massaggio alla medicina estetica)

3.      leggere i filosofi (filosofare è un po’ imparare a morire)

4.      viversi bene la menopausa (“una volta liberatasi dalla maternità, [la donna] può arricchire la propria sessualità)

5.      iniziare un’analisi (“non è mai troppo tardi” per andare dallo psicoanalista)

6.      ispirarsi agli antenati (mantenere una rete di relazioni come i centenari di Okinawa, in Giappone)

Afferma giustamente Sève: “salta agli occhi la grettezza individualista di tale concezione come la quantità di attività sociali che ne restano escluse: la trasmissione dei saperi e delle competenze professionali, l’apprendimento di nuove attività, la partecipazione alla vita pubblica con opere di volontariato, le occupazioni manuali di qualsiasi tipo…secondo questa pedagogia il senior sarebbe un ozioso sociale; alla curva biologica della vita corrisponderebbe una curva psicologica che ci vedrebbe destinati ad invecchiare deboli e ai margini della società (tranne – osservazione mia – per quanto concerne l’“attività” di consumatori, un po’ come i giovani ancora fuori dal mercato del lavoro).”

“Qui – riflette Sève – misuriamo i danni della concezione biologizzante di essere umano che fa un tutt’uno con l’ideologia liberale – quella dell’Homo oeconomicus, animale geneticamente programmato per essere un individualista calcolatore - , mentre tutto quello che costituisce una personalità (dal linguaggio all’intelligenza critica, dal know-how  alla coscienza morale) trova la sua origine non nel genoma, ma nei rapporti sociali di cui ciascuno a suo modo si appropria nel corso della vita.”

 

Avviandomi alle conclusioni, credo di poter affermare che la malattia, alla fin fine, potrebbe essere definita come l’eventobiopsicosociale” che, indipendentemente dalla sua natura, determina l’interruzione o il fallimento di un progetto di vita. Un corollario di tale definizione che spesso non viene sottolineato a sufficienza è che spesso le istituzioni deputate a ricostruire ciò che sta andando in frantumi si frappongono come un nuovo ostacolo a realizzare questo obiettivo piuttosto che porsi come un vero strumento di liberazione.

E’ per questo che, venendo ai programmi che dovremmo chiedere di realizzare ai politici che governeranno le Regioni, titolari della gestione della Sanità, credo che sia giusto pretendere che pongano una particolare attenzione a:

  1. superare l’occupazione partitica dei posti primariali, in nome di un vero privilegio delle capacità tecniche documentate
  2. far sì che i progetti di prevenzione siano forniti di risorse adeguate e di una conoscenza precisa del loro territorio perché il loro intervento sull’ambiente (a livello di condizioni di lavoro, di igiene, dei fattori di rischio, ecc) sia davvero efficace
  3. definire momenti precisi di monitoraggio “trasparente” da parte dei cittadini delle risorse e dei programmi già a partire dal livello del distretto socio-sanitario
  4. intervenire sul mondo della medicina privata perché non si corra il rischio di ricostruire, a dispetto di quanto prevederebbe un Servizio Sanitario Nazionale, corsie separate tra cittadini diversi per censo e non si riversino risorse (scarse) su servizi dal costo modesto e dall’alta redditività, evidentemente privilegiati da chi insegue comunque il profitto
  5. inserire nelle convenzioni con i medici di famiglia, anche se questo dovesse comportare un costo iniziale maggiore, la richiesta di ricevere rapporti periodici sulle condizioni di salute dei loro assistiti, perché il monitoraggio sulle condizioni di salute della popolazione sia credibile
  6. non risparmiare su risorse di personale per ridurre le liste di attesa, spesso intollerabilmente lunghe, come si fa anche scaricando i costi sui cittadini costretti o spinti verso la libera professione intra moenia. Un fattore di trasparenza potrebbe essere, come si sta sperimentando in Toscana, stilare liste di attesa uniche per le prestazioni ordinarie e a pagamento
  7. garantire che il cosiddetto consenso informato sia davvero tale e non la semplice firma su un modulo

…ma anche che monitorino la qualità della vita e il rispetto della dignità dei malati all’interno degli ospedali, l’eventuale (non infrequente, purtroppo) ricorso a strumenti di tortura come le contenzioni fisiche o a inaccettabili privazioni della libertà come le porte chiuse, senza trascurare aspetti più banali come gli orari di somministrazione del vitto, le effettive possibilità di ricevere visite e di godere della presenza di amici e familiari di fiducia, compatibilmente non tanto con i turni del personale ma con il rispetto dell’igiene e della privacy: tutti questi provvedimenti, come “rimozione di ostacoli alla riacquisizione della salute” intesa nel senso lato che abbiamo voluto darle, dovrebbero essere monitorati e premiati come progetti di umanizzazione della sanità a livello locale.

I politici dovrebbero imparare da un politico “atipico”, Mario Tommasini, scomparso nel 2006, riconosciuto come “l’uomo più buono d’Italia” , che non sopportava la pena di chi era espropriato del bene al quale ogni persona ha diritto: la dignità. Già nel dopoguerra aveva cominciato a vuotare i brefotrofi; convinse Salvarani, un re delle cucine, a assumere giovani Down; volle Basaglia a Parma per liberare i matti di Colorno; decise che i vecchi non dovevano invecchiare fuori dalle loro case; aprì una casa a Santos in Brasile per insegnare un mestiere ai bambini di strada.  Quando, in qualità di assessore provinciale con delega alla psichiatria, aveva messo piede in manicomio la prima volta, aveva gridato che quello era un lager e che ciò che era chiamato “terapia” era nazismo e aveva pensato (analogamente a Basaglia a Gorizia): “non ce la faccio, mi dimetto”, ma poi si era detto che non poteva abbandonare quella gente. Tommasini nel ’67 incontra Basaglia, giunto a Parma per un dibattito. Dirà: “pensavo che gli istituti assistenziali fossero una necessità. Per i matti il manicomio, per i bambini abbandonati il brefotrofio, per gli anziani soli l’ospizio. Con Basaglia ho imparato tutto. Ho capito il vero scopo di queste istituzioni: accantonare i problemi sociali più scottanti. L’assistenza era un alibi. E che assistenza, poi.” Nel 1977 una giuria internazionale della fondazione Goethe di Basilea attribuì a Tommasini il “Premio Schweitzer”, destinato “alle persone che si assumono una parte dei fardelli di dolore che pesano sul mondo, sull’esempio del dott. Schweitzer”.

 

 

 

 

Vorrei chiudere con il testo, dall’ironia sovversiva, di un volantino distribuito all’ingresso degli stabilimenti Renault a Flins nel febbraio del 1969:

 

  • Non bevete alcool, non prendete medicinali per addormentarvi o per calmarvi, non prendete ricostituenti: prendete il potere, è più sano.
  • Se vi sentite a disagio, se vi annoiate davanti alla televisione, è perché la televisione vi avvelena.
  • Attenzione TELE: veleno.
  • L’alcool uccide a 100 all’ora.
  • La società capitalistica uccide anche a piedi.
  • Medicina del lavoro: medicina dello sfruttamento o sfruttamento della medicina.
  • Proibito lavorare 11 mesi per vivere 4 settimane di vacanze pagate. Bisogna vivere 12 mesi.
  • Dopo una giornata di lavoro estenuante e senza alcun interesse non avete voglia di fare l’amore. La medicina non può farci niente con i suoi farmaci e le sue buone parole. Bisogna cambiare la giornata di lavoro, renderla accettabile. Il medico siete voi. Prendete il potere nell’azienda e nella società, diventate padroni della vostra vita.
  • Siete stanchi perché il lavoro che fate vi rompe le balle.
  • Rifiutate i ricostituenti.

LAVORATORI!

Se siete stanchi dei ritmi del capo squadra, del padrone, delle macchine, due soluzioni:

1)      Richiedete senza esitazione una sospensione del lavoro. La sicurezza sociale è qui per questo. E ricordatevi bene che, in fin dei conti, siete voi che pagate.

2)      Ovvero “impadronitevi” dell’azienda, fate la rivoluzione, è meglio.

 

Grazie

 

 

Comunicazione tenuta a Venezia, il 27 febbraio 2010, nell’ambito dell’ incontro a cura di Coplanet dal titolo Salute, Coscienza Sociale, Coscienza presso l’Hotel Monaco Grand Canal

 

 

 

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE (testi in italiano)

  • Hans-Georg Gadamer Dove si nasconde la salute. Cortina, Milano 1994
  • Maurilio Lovatti Per un’analisi filosofica del concetto di malattia: componenti drastiche ed emotivo-soggettive del significato comunicazione tenuta alla scuola internazionale di filosofia e storia della biologia e della medicina, Nettuno (Roma) 30 settembre 2003
  • Giulio A. Maccacaro Lettera al presidente dell’Ordine in Jean –Claude Polack “La medicina del capitale” Feltrinelli, Milano 1972
  • Franca Ongaro Basaglia Salute/malattia Einaudi, Torino, 1982
  • Felice Piersanti Il diritto alla salute in “il manifesto” 13 febbraio 2010
  • Jean –Claude PolackLa medicina del capitale Feltrinelli, Milano 1972
  • Bruno Rossi Mario Tommasini –eretico per amore. Diabasis, Reggio Emilia 2006
  • Lucien Sève Per una terza vita attiva – La luce della vecchiaia in “Le Monde diplomatique”-il manifesto gennaio 2010
  • Paolo Vìneis, Roberto Satolli I due dogmi – oggettività della scienza e integralismo etico Feltrinelli, Milano 2009
  • Henrik R. Wulff, Stig Andur Pedersen, Raben Rosenberg Filosofia della medicina Cortina, Milano 2005