Gli Ebrei
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- Category: Psichiatria e Nazismo
- Published on Thursday, 06 October 2011 09:41
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CENTRO STUDI E RICERCHE REGIONALE E INTERREGIONALE PER LA SALUTE MENTALE E LE SCIENZE UMANE PORTOGRUARO (VENEZIA) Azienda ULSS n. 10 "Veneto Orientale"
LA DEPORTAZIONE EBRAICA DAGLI OSPEDALI PSICHIATRICI DI VENEZIA NELL'OTTOBRE 1944. STORIA E CONTENUTI.
di Angelo Lallo e Lorenzo Toresini
1. PREMESSA
Dopo oltre 50 anni dalla fine del nazifascismo si era sperato che il germe dell'odio e della violenza fosse stato debellato alla radice. Così non è stato poiché la ricca Europa di fine millennio, l'Europa teoricamente pacificata trova difficoltà a fermare i sentimenti di odio e razzismo che provocano, fatalmente, tensioni politiche, sociali e razziali.
Tuttavia, se non possiamo cambiare il senso della Storia, possiamo "ricordare" alle nuove generazioni che Coloro che non si ricordano del passato sono condannati a riviverlo e che il passato non deve essere dimenticato. Sicuramente hanno rivissuto il passato le popolazioni della Bosnia con le atrocità di pulizia etnica, dei campi di concentramento che pensavamo non più possibili.
Per evitare un'altra Bosnia, altre Shoah, tutti i saperi devono collaborare per far sì che l' imperativo di essere testimoni attivi della democrazia entri nel codice genetico dell'uomo contemporaneo. In questa prospettiva, dopo la riscoperta di alcuni frammenti di olocausto psichiatrico in Italia, presentiamo una ricerca su un caso di deportazione di pazienti ebrei dall'Ospedale Psichiatrico di S. Servolo (Venezia), convinti che è necessario approfondire queste ricerche nel nostro paese.
Il quesito da porre, in senso più generale, è quanto la psichiatria nazista si colleghi con alcuni presupposti teorici della psichiatria istituzionale; se in sostanza si è in presenza dello stesso paradigma.
2. DALLE LEGGI RAZZIALI AI CAMPI DI CONCENTRAMENTO VENEZIA 1939/1944 Nel 1937 i responsabili della Comunità Ebraica di Venezia, pur obbligati a tranquillizzare i correligionari sul fatto che nulla sarebbe cambiato nella normalità quotidiana, erano preoccupati per l'atteggiamento governativo che stava diventando poco tollerante verso gli ebrei.
Uno dei paradossi del Fascismo, la cui ideologia conteneva presupposti razzisti, emerge con chiarezza dal fatto che, dopo l'avvento del Nazismo in Germania, esso continuò, contemporaneamente al varo di leggi contro gli ebrei italiani, a permettere pubblicamente l'accesso sul territorio nazionale agli ebrei esuli. Era una permissività che serviva al regime, non solo come veicolo promozionale nei confronti della stampa estera, ma anche ad occultare la mancanza di democrazia interna.
Nel 1938 il regime promulgò le leggi antiebraiche con il titolo: "Provvedimenti per la difesa della razza italiana", che colpirono tutti gli ebrei residenti sul territorio italiano, compresi gli stranieri e quelli che nel frattempo erano diventati apolidi.
Per costoro si prevedeva l'espulsione se non avessero abbandonato l'Italia entro il 12 marzo 1939.
Nell'estate del 1940, dopo l'entrata in guerra dell'Italia, coloro che non avevano potuto o voluto ottemperare a tale ordine furono internati in appositi campi, di cui il più importante fu quello di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza , ma di fatto gli ebrei continuarono ad essere presenti nel territorio nazionale.
Mai sentore era stato così preciso, poiché il Regio Decreto del 5 settembre 1938 con i "provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista", confermati poi dalla "dichiarazione sulla razza" approvata dal Gran Consiglio del fascismo nell'ottobre 1938, inaugurò la politica antisemita sfociata nella deportazione e nello sterminio di massa.
In questo frangente la comunità ebraica veneziana viveva in uno stato di enorme apprensione, aggravata da una disposizione del Ministro degli Interni, che ordinò a tutti i prefetti il censimento degli ebrei.
Fino a quel momento non esisteva in Italia una statistica demografica che distinguesse i cittadini secondo la razza. Si trattò di un censimento riservato, articolato nelle istruzioni ma impreciso nel corso della rilevazione anche perché il concetto di razza era del tutto inedito nell'Amministrazione. Il censimento individuò 2.136 veneziani di razza ebraica: in seguito fu ordinata una parziale revisione che determinò rilevanti variazioni.
Da questa rilevazione l'indicazione della razza ebraica divenne obbligatoria su tutti i documenti civili. D'altra parte la Comunità Israelitica era già obbligata fin dai primi anni '30 a mantenere in ordine i registri anagrafici per permettere agli organi di polizia di controllare, in qualsiasi momento, la consistenza della comunità stessa.
Era un momento difficile aggravato da numerose informative riservate della polizia e del PNF che denunciavano la presenza di ebrei veneziani nelle attività professionali, denunce che provocarono nei primi mesi del 1940 la cancellazione di medici, avvocati e ingegneri dagli albi professionali.
Nonostante le intense pressioni della Comunità ebraica, l'istruzione pubblica fu preclusa agli ebrei; l'iscrizione all'anno scolastico 1938/1939 fu condizionata al possesso di un certificato di non appartenenza alla razza ebraica; gli insegnanti ed impiegati ebrei furono licenziati.
Le Assicurazioni Generali e la Cassa di Risparmio licenziarono il personale non "ariano"; dagli elenchi telefonici e dalla toponomastica cittadina scomparvero i nomi ebraici; furono ritirati tutti gli apparecchi radio.
Il Ministero della Cultura Popolare non risparmiò i centri culturali e provvide a far licenziare artisti e orchestrali della Fenice; dall'Istituto di Scienze, Lettere e Arti furono estromessi giuristi, matematici, medici e professori; alla biblioteca della Casa Goldoni fu proibito di accettare le donazioni di libri e carte di ebrei; la Fondazione Querini Stampalia, oltre al divieto di avere dipendenti ebrei, ebbe disposizioni sul divieto di consultazione di autori ebrei e sull'accesso di studiosi e studenti ebrei.
Disposizioni che nel loro insieme produssero drammi, disoccupazione ed esodi tali da ridurre ancor di più gli introiti della Comunità, provocando fatalmente frizioni nei ceti più disagiati della popolazione ebraica veneziana. I raid squadristi del 1942 contribuirono al peggioramento di vita di tutta la Comunità ed una disposizione ministeriale, che precettava civilmente a scopo di lavoro gli ebrei compresi tra i 18 e i 55 anni "poiché gli ebrei devono restituire quei benefici che la cittadinanza italiana ad essi procura", rese la situazione ancora più grave.
L'aspetto più odioso della campagna razziale riguardò l'istruzione elementare e media con l'allontanamento degli studenti dai loro compagni di classe, in ottemperanza alla "purezza del pensiero e della cultura", e ciò rese necessario l' istituzione di corsi elementari e medi per i giovani studenti.
L'Università veneziana perse prestigiosi docenti come Gino Luzzatto, costretto a proseguire la sua attività scientifica con pubblicazioni anonime; gli studenti si videro rilasciare i diplomi di laurea con la dizione "appartenente alla razza ebraica", aspetti che fatalmente portarono il numero degli universitari ad esaurirsi in poco tempo.
Nessun campo della vita sociale fu risparmiato, e si deve all' A.D.E.I. l'aver saputo organizzare, in quei momenti così difficili, con encomiabile forza d'animo, forme assistenziali di base: dalle colonie estive alla refezione scolastica, dall'organizzazione di corsi di lingua e cultura ebraica alla celebrazione delle maggiori festività.
Sostanzialmente la Comunità veneziana fu obbligata ad assumersi compiti assistenziali prima d'allora di competenza statale, rendendo ancor più profondo il distacco dagli altri cittadini.
Le istituzioni di beneficenza provvidero all'assistenza sanitaria, al soccorso per le famiglie povere, all'aiuto economico per i giovani studenti meritevoli e ad altro ancora.
La Casa di Ricovero assunse un'importante funzione, poiché divenne luogo di degenza per anziani, mensa per i più disagiati e centro di assistenza per coloro che transitavano per la città, in quanto dopo l'entrata in guerra dell'Italia la vita per gli ebrei stranieri e per coloro che transitavano sul territorio nazionale divenne difficile. Molti furono confinati o rinchiusi nei 16 campi e località di internamento del Veneto.
Per tutto il 1942 e il 1943 il flusso di profughi provenienti dal Balcani -occupati dai tedeschi e bombardati dagli alleati - rese allarmante la situazione sociale della città.
La caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, non migliorò la condizione degli ebrei veneziani; dal 9 settembre 1943 con il controllo tedesco di Mestre e di Venezia si entrò nell'ottica nazista della "soluzione finale", che presupponeva come premessa alla deportazione, la precisa conoscenza degli ebrei puri o misti.
La questione era delicata poiché gli elenchi in possesso della Prefettura non coincidevano con quelli della Comunità che, pertanto, era continuamente sollecitata a dare riscontri alle numerose domande di chiarimento.
Era ovvio che i dirigenti della Comunità Ebraica fossero gli unici in possesso di elenchi aggiornati e, proprio per non consegnare queste liste, il professor Giuseppe Jona, dopo aver affidato i nomi ad una persona di provata fiducia, si tolse la vita.
Volendo appropriarsi di elenchi ancor più dettagliati rispetto a quelli che possedeva già, la polizia ritirò i registri di nascita, di morte, di matrimonio e di abiura, utilizzandoli in maniera indiscriminata.
Dopo l'inizio dell'occupazione tedesca e della costituzione della R.S.I. la persecuzione antiebraica si evolse in due fasi distinte: in una prima fase fu il Ministero degli Interni che si occupò della ricerca e degli arresti degli ebrei; una seconda fase in cui la stessa polizia tedesca si sovrappose a quell'italiana.
Il 30 novembre 1943 il capo della polizia emanò un ordine di arresto e di sequestro dei beni di tutti gli ebrei, considerati nemici della patria in applicazione alle leggi di guerra, ordine che fece precipitare la situazione della Comunità.
Infatti, nei primi giorni di dicembre ci fu una gravissima retata da parte della polizia italiana in seguito alla quale vennero rinchiusi parecchie diecine di uomini, donne e ragazzi (questi negli Istituti per minori) nelle carceri di Santa Maria Maggiore, nella casa di Ricovero Israelitica (durante i 18 mesi della permanenza nazifascista fu l'unica istituzione a funzionare curando vecchi e malati) e del Convitto Foscarini.
Sebbene le disposizioni lo prevedessero, non furono rilasciati i malati gravi, gli ultrasettantenni e le famiglie miste.
Naturalmente chi poteva nascondersi lo fece, nonostante i feroci rastrellamenti condotti dalla polizia fascista, autonomamente all'inizio, in collaborazione con le autorità tedesche in seguito.
Giuridicamente le leggi razziali italiane si basavano sugli stessi valori discriminanti di quelle di Norimberga, anzi per alcuni aspetti erano più severe in quanto riconoscevano come di razza ebraica pura, persone con un solo terzo di ascendenza israelitica. Il 28 dicembre 1943 il questore di Venezia, in base alle nuove disposizioni legislative, ordinò la prima deportazione nel campo di concentramento di transito di Fossoli di Carpi degli ebrei arrestati agli inizi di dicembre. Nessuno veniva risparmiato, ammalati, vecchi e bambini, tutti gli ebrei d'Italia, come quelli veneziani, avevano il destino segnato.
Qualora arrestati erano destinati al campo di sterminio, chi attraverso Fossoli, chi da Bolzano-Gries, chi da Borgo S. Dalmazzo, chi attraverso la Risiera di San Sabba di Trieste, quasi tutti furono deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Talvolta alcuni ebrei deportati dall'Italia furono diretti verso Ravensbruck e Bergen Belsen.
Nella seconda fase nazista s'iniziò ad arrestare i malati dagli ospedali cittadini di Venezia e il 7 ottobre 1944 alcuni di essi furono deportati dapprima verso il centro di raccolta di Trieste, poi caricati su vagoni verso Auschwitz-Birkenau.
Qualche giorno dopo, l'11 ottobre 1944, su ordine del comando SS. germanico, dall'O.P. di S. Servolo furono prelevati sei pazienti di religione ebraica ed è su questo triste episodio che si incentra la nostra ricerca. Essa si occupa delle modalità di prelevamento di questi pazienti, della loro deportazione e della immaginabile destinazione finale, visti attraverso l'analisi dei documenti inseriti nelle cartelle cliniche.
3. CRONACA DELLA DEPORTAZIONE DALL'O.P. DI S.SERVOLO
Le prime notizie di fonte ebraica sulle deportazioni dagli OO.PP. di Venezia (S. Clemente e S. Servolo), erano già apparse sulla rivista "Israel" nel 1945, poi riportate da testimonianze e riprodotte in numerosi testi di storici.
Tuttavia leggere le cartelle cliniche, 54 anni dopo, comporta inevitabilmente una duplice analisi poiché se è difficile separare le considerazioni storiche dall'aspetto più propriamente umano, non si può colpevolmente essere indifferenti e non adoperarsi affinché queste microstorie servano non solo per ricordare, ma ad evitare che si ripropongano.
Non si tratta solo quindi dello studio freddo dei rastrellamenti e di altre nefandezze ancor più vergognose perché subiti da soggetti vulnerabili, ma la presa di coscienza, in un parziale risarcimento da parte della Storia, di restituire considerazione a vite "indegne di essere vissute", in modo da ribaltare la formulazione delle vite indegne di essere vissute in un recupero della loro dignità umana.
La ricostruzione di quegli eventi inizia l'11 ottobre 1944 quando un Commissario di P.S. di Venezia consegnò alla direzione di S. Servolo questa nota: "d'ordine del comando SS. Germanico, ritiro dall'ospedale Psichiatrico di S. Servolo il ricoverato di razza ebraica T. G. di 65 anni, pur essendo avvertito dalla Direzione di questo ospedale che si tratta di malato di mente regolarmente ricoverato a norma di Legge e tuttora bisognoso di cura e custodia in ospedale specializzato", che è molto simile alle note ritrovate nelle sei cartelle cliniche reperite nell'archivio di S. Servolo.
Quindi, pur essendo consapevole di essere in presenza di un malato bisognoso di cure, il poliziotto italiano adempie all' ordine di prelevamento e dopo il ritiro dei pazienti, consegna "per ricevuta" la cedola giustificativa come in un banale movimento di merci. Sulla tabella nosologica di alcuni, ci sono degli appunti che con buona grafia invitano, in caso di dismissioni del paziente a telefonare all' Ufficio di P.S. di S.Elena ed "anche al Comando Tedesco".
Dall'esame delle cartelle cliniche dei sei ebrei arrestati l'11 ottobre 1944 appare chiaramente come essi, prima ancora che dalle autorità naziste, erano stati fatti oggetto di interesse e di sorveglianza da parte della polizia italiana. Prendiamo il caso di L.C. che il 9 luglio 1943 aveva chiesto spontaneamente di essere mobilitato civilmente (in sostanza di essere dimesso) e di essere adibito in lavori materiali esterni.
Il direttore pur dichiarando che il paziente "è guarito dai disturbi mentali ed è in grado di essere dimesso" si sentì di dover far presente che il paziente "è di razza ebraica". In realtà L.C. non solo non fu rilasciato ma il suo stato mentale si aggravò tanto che "la crisi di eccitamento si è sviluppata in una tale forma da rendere necessario l'isolamento del malato. Iniziasi la cura dell'elettroshock": cura che continuò fino al 4 ottobre 1944.
La domanda non venne presa in considerazione anzi, di nuovo il 29 dicembre 1943, l'Ufficio di P.S. di S. Elena si assicurò che il paziente fosse ancora ricoverato. Infatti richiese alla direzione di S. Servolo di "comunicare (anche per telefono al n. cittadino 27731) l'eventuale dimissione". La risposta fu celere poiché il 4 gennaio 1944 la direzione si premunì di assicurare "che in caso di dimissioni dell'ebreo L.C. sarà data comunicazione a codesto ufficio". Anche il comando tedesco chiese notizie del ricoverato e il direttore di S. Servolo rispose, con una nota inviata in data 18 febbraio 1944, che "L.C. di religione israelita, di professione impiegato, trovasi ricoverato per malattia mentale con diagnosi di paranoia".
Nonostante questo certificato l' Aussenkommando Venedig, situato al numero civico S. Marco 105, richiese perentoriamente in lingua tedesca per iscritto "[...] una perizia medica sullo stato di salute di L. C. Chiediamo in particolare che venga considerato nella perizia la durata e il decorso della malattia, il momento dell'eventuale guarigione [...] di accertare se le condizioni di salute della suddetta persona siano allo stato attuale compatibili con la carcerazione". In realtà la richiesta dei tedeschi non riguarda lo stato mentale di L.C. ma la preoccupazione che egli sia sempre rinchiuso e quindi arrestabile. Come vedremo in seguito, la storia di L.C. si concluse tragicamente, come per altri, con l'arresto il giorno 11 ottobre 1944.
Ma il peggio doveva ancora avvenire ed infatti il 19 aprile 1944 la Questura di Venezia inviò una riservatissima-personale ai direttori degli ospedali e case di cura cittadini con la quale richiese di fornire l'elenco e le informazioni inerenti a degenti ebrei in modo da poter verificare se "le loro condizioni siano effettivamente tali da impedirne il trasporto in campo di concentramento e se agevole ne sia la sorveglianza da parte del personale degli stessi Istituti di cura".
In realtà poiché si stava preparando la retata si voleva solo appurare la loro presenza nell'O.P.
Per inciso compare per la prima volta, negli atti inseriti nelle cartelle cliniche dell'O.P., la dizione "trasporto in campi di concentramento". Il 4 ottobre 1944 il vice commissario di P. S., supportato da un interprete e da un militare tedesco, visitò S. Servolo e S.Clemente. Il gruppo accompagnato dal medico di guardia esaminò il registro dei ricoverati, prelevato direttamente dall'ufficio economato.
Nel contempo prese diretta visione degli ebrei ricoverati nei due ospedali, accertandosi di persona della reale presenza di questi pazienti. Nel pomeriggio del giorno dopo lo stesso vice commissario informò telefonicamente la direzione di S. Clemente che "per ordine del Comando Tedesco, tra un'ora saranno prelevati gli ebrei qui ricoverati", prelevamento che sarebbe dovuto avvenire con l'unica formalità di regolare ricevuta debitamente firmata .
Il direttore di S. Clemente avvisò immediatamente il direttore di S. Servolo (il quale peraltro era già a conoscenza della disposizione) dell'ordine di consegna, tuttavia il prelevamento fu rimandato al giorno seguente per il forte vento che agitava la laguna. Difatti il mattino dopo - 6 ottobre 1944 - il vice commissario con agenti di P.S. e militari tedeschi prelevò cinque degenti ebrei dall'O.P. di S.Clemente firmando le ricevute di consegna.
Egli si premunì di avvisare che stava eseguendo un ordine del Comando tedesco e che il suo compito era solo quello di accompagnarli nella Sala Custodia dell'Ospedale Civile di Venezia.
Dopo questo episodio il direttore di S. Clemente provvide ad avvisare non solo la Procura di Stato, l'Amministrazione Provinciale e la Prefettura di Venezia ma anche i familiari di coloro dei quali si conosceva l'indirizzo.
Per quanto riguarda S.Servolo, sebbene fosse stato già impartito l'ordine di prelevamento la disposizione venne invece eseguita solo qualche giorno dopo. L' 11 ottobre 1944 con le modalità seguite per il prelevamento da S.Clemente, lo stesso gruppo misto di militari italiani e tedeschi al comando del vice commissario della Questura, prelevò altre sei persone. Nello stesso giorno il direttore di S.Servolo comunicò alla Prefettura, alla Procura e alla Questura che "oggi è stato ritirato da questo ospedale dalla Polizia Repubblicana Italiana, d'ordine del Comando SS Germanico il ricoverato di razza ebraica L.C. [...] qui accolto il 10 ottobre 1940".
La notizia venne riportata nella cartella clinica ma alla voce osservazioni non venne scritto prelevato dal comando militare bensì, in bella grafia, che il paziente era stato dimesso. Pochi giorni più tardi dal registro della popolazione di Venezia la notizia venne perfezionata con la notifica che "il giorno 11 ottobre 1944 dall'O.P. di S.Servolo partì L. C.", naturalmente per destinazione ignota.
Questo iter è stato ripercorso in tutte le cartelle cliniche dei sei pazienti Analizzando ancora la cartella clinica del paziente M. L. si può azzardare l'idea che sia stato fatto internare dalla madre, supponendo di poterlo salvare da eventuali retate, infatti essa stessa lo accompagnò a S.Servolo la mattina del 26 ottobre 1943 in uno stato di normalità. Dalla lettura della cartella clinica non si può stabilire una precisa diagnosi per il solo fatto che la grafia del medico risulta indecifrabile.
M.L. risulta essere nato a Palermo ma da indagini effettuate egli non risulta iscritto in quegli anni all'anagrafe palermitana, pertanto si può ipotizzare che dalla famiglia siano stati prodotti documenti falsi.
Forse anche per questo il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano ritiene che M.L. non sia ebreo. Tuttavia dalle notizie fornite dal direttore dell'O.P. di S.Servolo, accanto ai dati M.L. venne aggiunto il cognome BLUMS di chiara origine ebraica: con ciò possiamo ipotizzare che il direttore fosse al corrente dei dati anagrafici falsi.
Nei primi anni '60 il governo tedesco emanò una disposizione con la quale si misero a disposizione dei fondi per indennizzare i familiari di internati nei lager o gli internati stessi, se sopravvissuti, che avessero potuto dimostrare l'avvenuta deportazione. Il governo italiano delegò per la ricerca sia le associazioni degli ex deportati sia le Comunità Ebraiche. Il caso di C. I. rientra in una di queste richieste.
Da notare, anche a titolo di curiosità, che l'efficienza burocratica, vanto dello Stato fascista, in questa circostanza presentò una lacuna poiché all'Anagrafe di Venezia sfuggì che la persona in questione era stata data in partenza dalla popolazione di Venezia.
L' Ufficio Provinciale del Tesoro di Venezia addirittura scriveva, con richiesta urgente n.1160 del 30 gennaio 1945 rivolta all'O.P. di S.Servolo, che "quest'ufficio deve provvedere al pagamento delle rate di pensione dal 6/1/1944 a data corrente. Pregasi pertanto voler comunicare con cortese sollecitudine se la prefata pensionata trovasi ricoverata o facente parte del personale di servizio di codesto ospedale".
La Direzione di S. Servolo rispose semplicemente che la paziente era stata ritirata d'ordine del Comando tedesco in data 11 ottobre 1944: con questo, credo, non potremo mai sapere dove sia andata a finire la pensione di un anno della paziente. Un altro strano ricovero è quello di B. G. trasferito dalla Casa di Salute ebraica "Fate-Bene-Fratelli" dove era stato accolto, per sua specifica richiesta, il 10 novembre 1943 con diagnosi di stato depressivo.
Dopo soli 13 giorni venne trasferito all'O.P. di S. Servolo senza il decreto di ricovero definitivo da parte del Tribunale, che stranamente alla data di trasferimento non era ancora pervenuto.
Dalla tabella nosologica dell'O.P. di S. Servolo si evince che la diagnosi di accettazione è palesemente diversa da quella della Casa di Salute "Fate-Bene-Fratelli"; che non esistono recidive di ricoveri; che lo stato di salute è quello di un normale anziano signore di oltre sessanta anni.
Pertanto dai dati in nostro possesso è presumibile che il ricovero sia stato un modo per sfuggire alle retate già in atto su tutto il territorio nazionale e che il trasferimento presso l'O.P. di S. Servolo sia stato pensato come un'ulteriore possibilità di salvezza dato il gran numero di persone ricoverate in quel luogo.
Oggi sappiano che gli eventi portarono invece anche B. G. ad essere prelevato, in quanto ebreo, l'11 ottobre 1944. Le vicende di G. R. ci riportano in un quadro prettamente politico. Infatti egli venne internato con atto della Regia Questura di Venezia il 14 marzo 1940. Nella tabella nosologica della sua cartella si legge che "l'infermo non ha mai presentato disturbi di mente. [...] Fu per molti anni interprete nelle Ferrovie dello Stato a Milano. Servì la Patria nel 42° Reggimento fanteria.
Per le leggi razziali il paziente divenne un paziente di mente [...] per la perduta prosperità, l'umiliazione di dover [illeggibile] la denutrizione. E' depresso, non dorme, commette atti strani". In seguito l'Amministrazione della Provincia di Venezia chiese all'O.P. di S.Servolo notizie molto dettagliate sul passato di G. R., notizie che vennero inviate celermente due giorni dopo confermando che egli era nato in Turchia, aveva trovato lavoro in Italia dapprima in qualità di portiere nell'Albergo "Esperia Palace" di Roma, poi, dopo un ritorno in Turchia di qualche anno, aveva trovato occupazione come interprete presso il buffet della stazione centrale di Milano; di aver prestato servizio militare nel 42° Reggimento Fanteria di Savona; di aver ancora qualche parente in Turchia.
La nota dell'O.P. di S.Servolo non sfuggì alla federazione dei fasci di combattimento - sezione di Venezia in Ca' Littoria - che informò il direttore di S.Servolo che "G. R., ricoverato in codesto ospedale ha inviato la lettera che qui unita vi rimetto al Segretario dei fasci italiani all'estero chiedendo assistenza. Vi sarò molto grato se vorrete fornirmi notizie sulle condizioni economiche dell'interessato [...]".
Il carteggio tra il direttore di S. Servolo e la federazione dei fasci di combattimento si chiude con l'ultima nota trovata nella cartella clinica indirizzata al vice Segretario federale che relaziona "[...] non posso garantire l'esattezza di quanto afferma, ma è probabile che vi sia del vero. Egli è sprovvisto di mezzi e ne chiede continuamente a tutti.
La Confraternita Israelitica, a cui egli si è più volte rivolto, non gli ha dato sussidi, dei quali in verità, finché resta in Manicomio, non ha alcun bisogno. Il Ministero tempo addietro autorizzò il suo espatrio in Turchia, ma sia per le sue condizioni mentali che per la situazione internazionale non ha potuto avere esecuzione. Restituisco la lettera del G. R. Vincere!".
Le vicende di G. R. si chiudono come gli altri nella giornata dell'11 ottobre 1944 con il prelevamento dall'O.P. di S. Servolo ma forse è utile trascrivere le ultime righe della sua storia clinica perché illuminante sia del clima che si respirava nel manicomio di S. Servolo, sia del pensiero ideologico del direttore che aveva scritto queste note. Egli infatti scriveva nel luglio 1944: "[...] molto probabilmente la condotta che tiene nel manicomio è quella abituale della sua razza. E' odioso e fa il piccolo commercio per procurarsi i mezzi per poter soddisfare i suoi piccoli bisogni personali, specialmente il fumo.
Del resto è calmo, tranquillo, ordinato [...]".
La conclusione lapidaria dell'opinione "abituale della sua razza" suscita diversi dubbi interpretativi che qui di tenterà di riassumere attraverso delle domande che potranno divenire ipotesi di futura ricerca.
Era la psichiatria italiana, oltre che sicuramente connivente con il regime fascista, anche collaboratrice nel formulare il concetto di Razza? Oppure questo concetto è imputabile ad un antisemitismo popolare presente in tutte le classi sociali? Esso è da ascriversi agli effetti deleteri della propaganda, fatta anche attraverso i giornali e i film che sicuramente il direttore di S.Servolo avrà avuto occasione di visionare? Probabilmente il direttore avrà avuto una sensazione di dèjà vu quando, nel dopoguerra avrà letto qualcosa sull' organisieren nei lager, attivata, tra le altre cose, in semplice forma di quel piccolo commercio che tanto dava fastidio al medico e che tuttavia permise a molti deportati di sopravvivere.
Altro argomento estremamente interessante che filtra da queste note consiste nel fatto che il medico responsabile di S.Servolo non ritiene l'ospedale un luogo dove il ricoverato abbia il diritto al superfluo (come le sigarette) in quanto parte delle proprie abitudini di vita. L'ospedale psichiatrico quindi viene considerato come un luogo di costrizione e di punizione e, ipotesi azzardata ma verosimile, in cui il ricoverato esiste in funzione della malattia.
Probabilmente altri pazienti ebrei sono stati prelevati da S. Servolo per essere deportati nei vari campi di concentramento anche prima dell'11 ottobre 1944, ma allo stato attuale della ricerca e con i dati in nostro possesso possiamo solo registrare il caso della paziente S. A. che era seguita, come altri pazienti ebrei, direttamente dall' ufficio di P.S. di S. Elena. Come per altri pazienti ebrei si chiedeva continuamente di conoscere l'eventuale dimissione; evento poi verificatosi in data 11 gennaio 1944, singolarmente a soli quattro giorni dal ricovero ordinato dalla Questura di Venezia, con biglietto urgente avente come oggetto: "S.A., ebrea, demente".
Della dimissione della paziente fu tempestivamente avvisato il Commissariato di P.S. il giorno prima ed anche se non compaiono altre notizie nella cartella di questa paziente possiamo senz'altro concordare con gli storici che hanno compilato gli elenchi dei deportati che la paziente S. A. è stata internata ad Auschwitz-Birkenau con partenza dal campo di Fossoli il 22 febbraio 1944.
Ma come spesso accade in queste ricerche, la scoperta di tragedie familiari sono frequenti ed infatti, dopo attenta e scrupolosa analisi effettuata negli archivi del C.D.E.C., con l'ausilio delle le fonti ritrovate nelle cartelle cliniche, si è accertato che S.A. ha avuto due bambine illegittime: una nata nel 1935 di nome Anna, l'altra nata nel 1938 di nome Rosetta.
Mentre la madre era alternativamente o in carcere o in O.P. le due bambine furono accolte (o nascoste) da persone sconosciute.
Purtroppo i documenti testimoniano che le due bambine il 1 marzo 1944 (quindi da sole) furono internate a Fossoli prima e poi deportate ad Auschwitz-Birkenau dove, data l'età, furono trucidate all'arrivo. Fin qui la ricostruzione di alcuni frammenti di storia veneziana vista attraverso i documenti inseriti nelle cartelle cliniche di pazienti internati in un'istituzione totale.
Naturalmente è risaputo che la storia si fa con i documenti, ma attraverso quali documenti? Se si dovesse ricordare o ricostruire gli avvenimenti dell'11 ottobre 1944, accaduti all'interno del manicomio di S.Servolo, solo attraverso atti ufficiali, allora questa ricerca si dovrebbe chiudere con un grande interrogativo, perché i documenti in nostro possesso non ci permettono di sapere con certezza qual è stata la destinazione finale dei sei pazienti prelevati dal manicomio.
In ciò consiste la difficoltà delle ricerche che si occupano di deportazione poiché il reperimento delle fonti è di estrema difficoltà; del resto il procedimento di sterminio prevedeva la cancellazione di qualsiasi traccia dell'individuo da sottoporre a soluzione finale, di conseguenza la distruzione di ogni documento di identificazione era una precisa scelta del nazismo.
Tuttavia, pur non essendoci documenti ufficiali che possono far completamente luce su quelle vicende, qualche testimonianza, come quella della dott. Cortesi Maria Clara, medico psichiatrico a S. Servolo nel 1944, ci permette di definire alcuni particolari inediti.
Per la risposta finale, in mancanza di testimonianze scritte e orali, questa ricerca cercherà di definire, con il maggior grado di attendibilità possibile, attraverso l'analogia del percorso con altri deportati, qual è stato il destino dei pazienti arrestati a S. Servolo, partendo dall'ultima notizia in nostro possesso ovvero il prelevamento e la successiva loro custodia nell'Ospedale Civile di Venezia nella giornata dell'11 ottobre 1944. In quel giorno nella Divisione Custodia degli Ospedali Civili Riuniti (come allora si chiamava l'attuale Ospedale Civile) erano rinchiusi quindici pazienti di religione ebraica. Essi provenivano dagli ospedali della città o direttamente da casa, e il loro ricovero era avvenuto nei giorni immediatamente precedenti l'11 ottobre 1944.
La domanda da porsi è: la divisione custodia serviva da luogo di smistamento in attesa di passaggio in altri reparti oppure era una vera sala custodia per pazienti detenuti? Dalla lettura delle quindici cartelle cliniche reperite nell'Ospedale Civile di Venezia si deduce che i pazienti non erano affetti da sintomatologie che potessero giustificare il loro ricovero in ospedale e ciò si nota dal vuoto nelle caselle della diagnosi di accettazione. Poiché dieci pazienti erano ultrasessantenni, si può ipotizzare che le famiglie, in considerazione dell'età avanzata, avessero tentato di nasconderli per salvare loro la vita, aiutati in questo caso dai responsabili dell'Ospedale civile.
Unica eccezione riscontrabile in S. A., nata in Siberia, già detenuta in un campo di concentramento in località sconosciuta, ricoverata in condizione pietose e quindi non trasportabile. Il luogo di nascita e il fatto che provenisse direttamente da una pensione della città, fa presumere che fosse di passaggio in Italia. Ancora dall'incrocio delle fonti delle cartelle cliniche e i documenti in possesso del C.D.E.C. possiamo dedurre come probabile che S.A. fosse madre di M. BLUMS L.
Non è escluso che il loro ultimo incontro sia avvenuto nella sala custodia dell'O.C. di Venezia il giorno 11 ottobre 1944. Altro dato molto interessante è la presenza di due cartelle cliniche intestate alla stessa persona, J. A., compilate da mano diversa nei giorni 6 e 7 ottobre 1944.
Di conseguenza la domanda da porsi ancora è: l'Ospedale Civile era già in possesso di una lista di ricoverandi ebrei? Il divario tra i dati forniti dall'O.P. di S.Clemente e i dati ritrovati nell'O.C. di Venezia ci permette di rispondere in modo negativo alla domanda. Per suffragare questa tesi forse è utile ricordare che nel periodo interessato vi è stato un aumento degli ingressi nell'Ospedale Civile, evento che ha potuto probabilmente nuocere all'organizzazione interna. Inoltre dal confronto delle liste fornite dalla direzione dell' O.P. di S.Clemente e dall' Ospedale Civile di Venezia appare evidente che la sala custodia di quest'ultimo fosse una vera cella di detenzione e non sala smistamento per malati.
Infatti gli elenchi dell' O.P. di S.Clemente registrano cinque pazienti consegnati, il 6 ottobre 1944, direttamente al Comando militare tedesco, che a sua volta li rinchiuse nella sala custodia dell'Ospedale civile per altri cinque giorni. In questo caso possiamo porre degli interrogativi su come è stato possibile individuare il gruppo di pazienti ebrei ricoverati nell' ospedale e su chi ha avvisato il comando militare tedesco della loro presenza.
Per rispondere a questa domanda forse è utile menzionare che in quel periodo, da Venezia ad Udine, era molto attivo il capitano Stangl che comandava il distaccamento delle SS di stanza a Trieste con il compito di ricercare, con l'aiuto della polizia fascista e collaborazionisti, ebrei nascosti. Se il Comando militare tedesco aveva momentaneamente rinchiuso i pazienti dell' O. P. di S.Clemente nell'ospedale civile, in attesa di altra destinazione, e quindi era direttamente a conoscenza di queste persone, sembra del tutto scontato che le notizie che hanno permesso il prelevamento (direttamente da casa nella stessa giornata del 6 ottobre 1944 di altre cinque persone) siano venute dall'interno dello stesso Ospedale Civile.
Nella lista e nelle note delle cartelle cliniche dei quindici pazienti dell'Ospedale Civile essi risultano dimessi il giorno 11 ottobre 1944, nello stesso giorno quindi del prelevamento dei pazienti dell'O.P. di S.Servolo, notizia avvalorata dalla tradizione orale della Comunità Ebraica veneziana. Tuttavia dagli atti dell'archivio ospedaliero non compaiono tracce dei pazienti provenienti da S. Servolo.
La dott. M.C. Cortesi testimonia, a proposito di S. Servolo, che pochi ebrei erano ricoverati; che la direzione del manicomio non poteva ricevere altri ospiti, per tentare di salvarli, principalmente per il gran afflusso di parenti in isola e poi perché i registri erano severamente controllati. La dott. M.C. Cortesi ricorda i nomi di alcuni pazienti che coincidono con le persone di cui ci stiamo occupando, quindi la testimonianza conferma sostanzialmente i dati in nostro possesso.
Lei ricorda inoltre che "dentro l'ospedale entrò un ebreo austriaco, giustiziato dopo la guerra, con le SS. identificando così gli ebrei che poi furono deportati". La mattina dell'11 ottobre 1944 quando si presentarono i militari italiani, nel manicomio erano presenti circa trenta giovani "partigiani" (secondo il relatore della testimonianza erano renitenti alla leva) che accusavano finti disturbi psichici.
Costoro non furono presi in considerazione poiché l'attenzione dei militari era indirizzata verso i pazienti ebrei, in precedenza avvisati dal direttore dell' O.P. del pericolo che avrebbero potuto incontrare. I pazienti non seguirono i consigli del direttore Cortesi, ad eccezione di R.A. che "fu l'unica che si oppose con tutte le sue forze facendo la pazza pericolosa che fece scappare le SS. e la spia tedesca terrorizzata. La signora R.A. aveva seguito le indicazioni del prof. Cortesi eseguendo la messa in scena perfettamente". Gli altri, inconsapevolmente secondo la dott. M.C. Cortesi, seguirono "con gioia gli aguzzini, felici di andare in Germania.
Dal confine mandarono una cartolina al prof. Cortesi comunicandogli che erano in viaggio per la grande Germania". Questi fatti ribaltano ciò che risulta dalle espressioni trascritte nelle cartelle cliniche dei pazienti di S. Servolo e usate dal direttore che all'epoca appariva non esente da pregiudizi antiebraici. Alla luce di questa testimonianza, però, non possiamo escludere che i medici dell' O.P. fecero il possibile per salvare la maggior parte di internati ebrei dalle retate.
Allora è d'obbligo porre altri quesiti che qui di seguito riportiamo. Il direttore del manicomio era interessato alla sorte dei suoi pazienti? Richiese informazioni sul loro destino alle autorità naziste, che comunque, ricordiamo, non erano tenute a rispondere in quanto Venezia era territorio occupato militarmente? L'arrivo delle cartoline ci può far ipotizzare che i nazisti volessero tranquillizzare il direttore del manicomio in risposta alle sue sollecitazioni? Per ultimo, le sollecitazioni del direttore erano dovute ad un ripensamento personale o era un modo preventivo di giustificare il suo comportamento successivamente? Domande senza risposte ma, continuando con la ricostruzione degli eventi, l'aggregazione dei sei pazienti di S.Servolo al gruppo dei quindici dell'Ospedale Civile non può essere accertata perché, come già detto, non risulta dagli atti in nostro possesso né in quelli del C.D.E.C., però possiamo ricostruire il percorso di alcuni ebrei presenti nell'Ospedale Civile e di cui si conoscono i movimenti.
Da Trieste, dall'11 ottobre 1944 al febbraio 1945, sono partiti cinque convogli per destinazione Auschwitz e Ravensbruck (l'ultimo deviato a Bergen Belsen), pertanto possiamo presumere che, se non trucidati nella Risiera di S.Sabba, i pazienti possono essere stati destinati per questi Konzentrationlager. Purtroppo alcune liste di trasporto (transportlisten) non sono conservate poiché, per il gran numero di convogli in partenza dalla Risiera di S. Sabba, le registrazioni in partenza dal campo non sono note; occorre aggiungere che i nominativi dei pazienti dell'O.P. di S.Servolo non vengono menzionati dalle liste dei trucidati nella Risiera di S. Sabba.
L'analisi dei movimenti ferroviari in partenza dalla Risiera di S.Sabba ci obbliga ad escludere gli ultimi tre convogli partiti da Trieste perché troppo distanti dall'11 ottobre 1944. Pertanto i convogli con i quali possono esser stati deportati i pazienti ebrei, in riferimento alle date di prelevamento nell'O.P. di Servolo, sono soltanto il 39T partito il 18 ottobre 1944 e il convoglio 40T partito il giorno 1 novembre 1944, ambedue per Auschwitz-Birkenau ed arrivati a destinazione in data imprecisata. Poiché i convogli non sono registrati in arrivo nei documenti dell'archivio del museo statale di Oswiecim, a meno del reperimento di altre fonti, non possiamo chiudere questa ricerca con certezza.
Tuttavia se il nostro lavoro è servito a ricostruire parzialmente le microstorie di alcune persone, a recuperare e a ricordare le loro individualità violate, a portare un solo mattone al grande monumento della Memoria (intesa non solo come conservazione di essa ma come stimolo a mai dimenticare) allora il nostro compito di studiosi ha avuto un senso.
4. CONCLUSIONI
Si è ritenuto di ricordare queste vicende ad oltre 50 anni di distanza non perché strumentalmente sono stati rinvenuti dei materiali d'archivio finora sconosciuti, ma per arricchire la memoria storica. Essa rappresenta, come memoria sociale, il senso d'identità e continuità di un gruppo, ma è un senso che la nostra società tecnicamente progredita tende ad annullare, a trasformare in nozioni da scrivere sui libri scolastici o da seppellire nelle biblioteche. Ormai da qualche anno, consci della profonda cesura tra storia e memoria, gli storici stanno rielaborando la questione, cercando di conciliare i due aspetti in quanto parti ineludibili del vissuto sia individuale che collettivo.
Anche lo studio della Shoah ha bisogno di essere continuamente reso visibile, poiché dal genocidio degli Armeni del 1915 ai crimini staliniani, dalle atrocità in America Latina a quelle nei Balcani, dai crimini di Pol Pot alle stragi algerine, altre Shoah, in tutte le varie forme e particolarità, si sono ripetute o si stanno ripetendo.
Proprio per questo non possiamo deresponsabilizzarci, anzi il ricordo del genocidio degli ebrei non deve essere ridotto a fenomeno della Storia, eccezionale o singolare, ma reso sempre più attuale, vicino e "ingombrante" per quelle coscienze ancora oggi indifferenti.
Se oggi la società cosiddetta civile rinuncia alla comprensione delle dinamiche dei lager, dei gulag, delle deportazioni e dei manicomi allora si corre il rischio che le stesse metodologie vengano usate in futuro nei confronti di chiunque venga definito inutile o dannoso per la società.
C'è un'ultima notazione nel rapporto tra termine lager e quello di manicomio. E' vero che molti sopravvissuti hanno utilizzato la parola manicomio o lager per far comprendere il luogo delle sofferenze ma erano parole del proprio quotidiano e non sinonimi esemplicativi della loro esperienza.
Tuttavia ci sono sicuramente delle analogie metodologiche e organizzative tra il lager e il manicomio, entrambi espressione dell'universo concentrazionario e della negazione dell'identità individuale. Divergono certamente come obiettivo da raggiungere, in quanto il lager è espressione di un regime che lo prevede come elemento caratterizzante, mentre per la psichiatria il manicomio rappresentava uno strumento di controllo sociale presente in ogni istituzione politica, democratica o meno.
La scommessa del futuro è allora quella di evitare il ritorno delle ideocrazie (sebbene camuffate) frantumando, possibilmente per sempre, il legame tra istituzioni totali e organizzazione della società. Fin qui l'analisi e la ricostruzione storica dei fatti dai documenti e da testimonianze orali.
Quanto in realtà qui ci interessa rilevare è lo straordinario nesso logico e simbolico fra quanto avvenuto a Venezia (naturalmente in misura minore che altrove) e la matrice e il codice genetico della psichiatria. Quella psichiatria che nella sua accezione più somigliante ai fatti di cui oggi si rievoca la storia, la psichiatria istituzionale, più facilmente si presta alla similitudine della deportazione e dell'eutanasia sociale, ma anche quella psichiatria che, partendo da presupposti oggettivanti il malato, ne nega soggettività e diritti di cittadinanza.
La psichiatria sociale, nata, a quanto è dato di sapere, con la Repubblica di Weimar, rappresenta ancora in tutto il mondo il braccio sociale del controllo, con l'avallo dell'attuale ventata neokrepeliniana.
Non dimentichiamo infine il contrappasso per cui fu uno psichiatra a ordinare la pulizia etnica di chi egli considerava culturalmente, linguisticamente e socialmente "diverso". La guerra jugoslava è stata anche una guerra psichiatrica e la psichiatria ripropone, con forme nuove, i suoi contenuti di "braccio operativo" della pulizia dei diversi della società. Abbiamo imparato il pensiero dialettico di Franco Basaglia.
Continuamo per piacere a riflettere, controcorrente, al trend attuale della deculturazione in psichiatria.